Elisa Dellambra – Uomini che odiano le donne

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Fece tre grossi respiri e uscì dal bagno. Finse di non aver trovato nulla, che fosse tutto normale. Lo baciò sulle labbra, come ogni mattina, un bacio rapido, di cortesia. "Buon lavoro". Lo guardò allontanarsi col passo lento, quasi trascinato, e sparire dietro al portone nero. Attese, senza respirare, il motore dell’auto che si allontanava lasciandola sola e al sicuro. Fino a una settimana prima la presenza di suo marito la faceva sentire protetta, adesso la spaventava. Matteo andava a caccia, amava il senso di potere che trovava nell’imbracciare e usare un fucile, scovare una preda e decidere della sua vita. Diceva che lo avvicinava a Dio. Gliela aveva trasmessa il padre di Alice quella passione, prima che legasse con lui ne era addirittura disgustato. Ma quello che Alice aveva trovato tra i suoi trofei era uno scalpo, non erano peli di animali. Ciò nonostante, dopo la sorpresa e prima della paura, quello che aveva sentito più di tutto era delusione. Credeva che tra loro non ci fossero segreti.

Si erano conosciuti alle elementari, durante la ricreazione. Frequentavano due classi differenti perché lui era più grande di due anni. La loro scuola era molto piccola, aveva in tutto cinque classi e una sola sezione, quindi i bambini si conoscevano tutti. Fu lei a presentarsi. Lo vedeva ogni giorno starsene seduto in un angolo del giardino a guardare gli altri che giocavano. Lo chiamavano il pappagallo. Gli si avvicinò presentandosi.

"Ciao, io sono Alice".

Lui continuava a guardarsi i piedi.

"Io sono Alice, tu come ti chiami?".

"Mm-m-matteo".

"Vieni a giocare con me?". Lo prese per mano e se lo trascinò dietro, e se gli altri ridevano di lei perché giocava col balbuziente a lei non interessava.

Iniziò così la loro amicizia, e cominciarono a frequentarsi anche fuori dalla scuola. Matteo fu il primo e l'unico che Alice invitò a casa, perché si vergognava di quella piccola costruzione di mattoni con l'intonaco scrostato che cadeva a pezzi, e l'esterno era nulla in confronto alla desolazione che trovavi dentro. C'era la poltrona sformata dal culo di suo padre, con a fianco il posacenere rosa a forma di reggiseno pieno di tabacco masticato. C’era la vecchia televisione tutta scocciata e di fianco il tiro a segno, alcune freccette attaccate, altre a terra. C’era il fucile da caccia sempre poggiato sul tavolo di legno, distante qualche passo dalla poltrona. Era l’unico tavolo della casa, sul quale mangiavano a pranzo e cena, ma non importava, suo padre doveva avere sempre vicino il proprio fucile. E poi c’erano i suoi vestiti sporchi, ovunque, buttati a terra come capitava. La cameretta di Alice era uno sgabuzzino con incastrati solo il letto e un armadio a due ante. Nel piccolo spazio che rimaneva a terra lei e Matteo passavano i pomeriggi a fantasticare.

Seduto alla cattedra Matteo si godeva quegli attimi di silenzio. I suoi alunni stavano svolgendo un compito in classe. Odiava il proprio lavoro. Ripensò a come fosse finito lì. Lui e Alice stavano insieme da quindici anni e convivevano da cinque. Quella sera tornò a casa e si accorse che lei era diversa. Una vita trascorsa a osservare gli altri, in disparte, gli aveva permesso di sviluppare un'eccezionale capacità visiva: solo guardando una persona, anche pochi secondi, percepiva le sue emozioni, ne scorgeva i tratti del volto mutati; e quella sera Alice era spaventata. Aveva le sopracciglia lievemente alzate e le labbra in fuori. Proprio come stamani, rifletté. Che fosse di nuovo incinta? Ci avevano dato dentro quel mese, era possibile, ma strano che non gli avesse detto niente. Forse voleva aspettare. Aveva sofferto molto l’altra volta, quando poi aveva perso il bambino. Raccontare a tutti di un aborto spontaneo l'aveva straziata. E anche a lui era dispiaciuto, ma non poteva condividerla con nessuno. Finse gioia alla notizia di quella nascita. Su richiesta di Alice lasciò il suo lavoro precario come redattore e accettò l'incarico di docente nell’Istituto privato. Avrebbe guadagnato di più, era per il bambino, lei ripeteva. E lui l'aveva accontentata. Ma accettare quell’incarico era stato solo un diversivo, un gioco di prestigio: mentre lei gioiva per la sua accondiscendenza, lui scioglieva del veleno nella tisana, e senza macchiarsi di nulla si era disfatto del feto. Lei non lo aveva mai scoperto. Tornare a scuola, poi, dopo quel lutto così atroce, era stata una prova di coraggio e di profondo amore, ma il gioco di prestigio non si era concluso e quello che Matteo aveva creduto, che sedere su una cattedra gli avrebbe dato potere, che avrebbe stretto fra le mani le testoline di quei ragazzetti come faceva con i suoi trofei di caccia, non si era mai avverato. Entrare ogni mattina in quell'Istituto era come tornare indietro nel tempo e ridiventare il pappagallo, perché tra i colleghi professori c'era Alessandro, l'aguzzino della sua giovinezza. Era arrivato lì perché ce lo aveva piazzato il padre, ed era rimasto il solito sbruffone. Lo aveva incontrato il primo giorno del suo nuovo lavoro. Si erano incrociati nel corridoio. Matteo, il cuore che spaccava il petto, aveva finto di non riconoscerlo. Alessandro, invece, si era girato verso di lui e a voce alta aveva gridato:

"Non ci posso credere...sei davvero tu? Pappagallo? Dai, e che ci fai qui? Non mi dirai mica che sei un insegnante adesso??? T-ti cc-ci vorrà tutto il g-gg-giorno a ff-f-finire una l-lezione!". E gli diede una pacca sulla spalla. Poi ebbe la premura di presentarlo a tutti i colleghi raccontando come si erano conosciuti, lui e pappagallo.

Alice aveva veramente compreso il suo amico Matteo solo quando era entrata in quell'abitazione di via Pontichelli. Di per sé era una normale casa popolare, molti suoi compagni vivevano in luoghi simili, ciò che la turbò furono i suoi inquilini. Matteo viveva con la madre, Barbara, e una sua amica, Elena. Le stanze delle due donne erano grandi e luminose, con alte finestre. Erano arredate in maniera simile: avevano entrambe un letto matrimoniale, un grande armadio a sei ante con specchio centrale, due comodini con abat iour e uno specchio sul soffitto. La cameretta di Matteo, invece, era piccola e sembrava ricavata in quello che in origine aveva dovuto essere un ripostiglio. Aveva un letto, un armadio a tre ante e una scrivania, ma nessuna finestra. Le prime volte che vi entrò ad Alice sembrò di essere un criceto in una scatola di cartone, uno di quei contenitori angusti nei quali vengono messi quando li compri alle fiere di paese. Poi si abituò. Con il passare del tempo non fece neppure più caso ai molti uomini che si aggiravano per l'appartamento. Arrivavano, si sedevano sul divano e poi si intrufolavano nella camera di una delle due amiche. Dalla stanza di Matteo si sentiva tutto: rumori, colpi ritmici che crescevano di intensità e poi le urla, sempre uguali. A volte era la voce di Barbara a emettere un gemito, a volte quella di Elena, seguivano sempre i grugniti maschili.

Il giorno in cui Matteo conobbe la morte aveva quattordici anni. Era il compleanno di Elena, la bella amica di sua madre. Aveva passato le due settimane precedenti a intagliare nel legno il manico di un coltello, assemblandovi poi una lama. Lo aveva incartato in un foglio di quaderno e si era seduto ad aspettare che l'ultimo cliente del giorno uscisse da camera della donna. Poi si era fatto avanti.

"T-tieni questo è per te...".

"Grazie...Cos'è? Un regalo...che carino che sei...". Lo scartò.

Lui si avvicinò e le dette un bacio sulle labbra. Elena ricambiò quel bacio e infilò la sua lingua morbida nella bocca del ragazzo. Poi lo avvolse con le sue prosperose forme iniziandolo a un mondo di piacere. Lui, una volta distesi nudi nel letto, le confessò il suo amore.

"Era solo sesso...piccolo...ti ho fatto un favore, nessuna sarebbe mai venuta con uno come te...che dolce!". E iniziò a ridere fragorosamente. Quella risata acuta penetrò nelle orecchie di Matteo e arrivò fino al cervello innescando una reazione, un istinto primordiale. Afferrò il coltello e trafisse il corpo di lei più volte fino a che l'adrenalina non si affievolì e lui ritornò ad essere il quieto Matteo, il pappagallo. Elena non venne più nominata. E qualche tempo dopo una certa Gina prese il suo posto.

Alice si mise a cercare indizi nella camera da letto. Il pulsare del sangue era così forte che le rimbombava nel cervello, ma doveva concentrarsi e rimettere tutto nell'esatto modo in cui lui l'aveva trovato. Col cellulare fotografava ogni cosa prima di spostarla e poi ricomponeva il puzzle con attenzione. Le mani le tremavano, ma doveva sapere. Stava frugando nel cassetto dei calzini quando trovò una foto, ma era solo il ritratto di sua suocera: Barbara che sorrideva abbracciata a Matteo. L’aveva già vista mille volte e si domandava sempre in quale occasione avesse dato prova di tanta maternità, lei che lo aveva sempre considerato un ritardato. Quando ancora erano ragazzini l’aveva vista sputargli in faccia e urlargli che era un buono a nulla, come suo padre. “Almeno lui ha avuto il buon gusto di andarsene, tu invece stai qui con quell'aria da fesso a farti mantenere!". Solo perché aveva sbagliato a prepararle il caffè. Veniva picchiato o insultato almeno una volta al giorno, quando sua madre era di buon umore. Alice ripensò a quante volte Matteo avesse provato a fare colpo su quella donna, ad avere un legame con lei, senza mai riuscirci, tranne, evidentemente, in occasione di quella foto.

Si sedette sul letto e scrutò l’immagine da vicino cercando di carpire dove fosse stata scattata e quando. Riconobbe la casetta in legno alle loro spalle, gliela aveva lasciata sua madre. Si alzò di scatto e con ancora le mani tremanti rimise la foto quasi al proprio posto.

Alice era sempre stata una ragazzina socievole che coltivava molte amicizie, ma quando aveva incontrato Matteo, che si era insinuato nella sua vita come un piccolo corso d'acqua, e giorno dopo aveva scavato il proprio percorso spazzando via tutto ciò che lo intralciava, aveva lasciato che lui la allontanasse dai propri amici. Lo aveva fatto con apparente dolcezza, brandendo come lama il suo apparente amore. Anche più tardi, quando c'erano stati i primi episodi di violenza, aveva sempre usato quella scusa: non riusciva a controllarsi da quanto la amava. E lei ci aveva creduto, lo aveva giustificato, all'uomo poteva scappare qualche ceffone, lo aveva già vissuto in casa da bambina, ciò che contava era il resto del tempo, quando lui era calmo e la trattava come una signora.

Era una rosa sotto un vetro, non poteva lavorare né uscire da sola, ma era il prezzo dell'amore.

Alice, quella sera, lo aveva pregato di fare una gita nel bosco, l'indomani. Voleva andare alla piccola dimora di montagna, quella che gli aveva lasciato sua madre. Era una donna determinata la sua Alice, aveva già preparato tutto, e lui non aveva potuto negarle quella piccola fuga. Prima di coricarsi, però, aveva notato dentro il cassetto la foto fuori posto. Niente di strano se lei avesse aggiunto dei calzini, ma erano gli stessi dodici che c'erano la mattina quando si era vestito. Quell'istantanea gli ricordava un evento speciale. Lui e sua madre, di notte, avevano camminato per ore nel bosco, sulle spalle un lungo e pesante sacco, sui sessanta chili, nella sua mano una torcia, in quella della donna una pala. Avevano poi scavato, arrivati al posto giusto, e sotterrato quel segreto di nome Elena. Si erano poi coricati nella baracca di montagna, di loro proprietà da varie generazioni, e l'indomani Barbara aveva voluto scattare una foto, orgogliosa. Matteo controllò sua moglie, era ancora sul divano a guardare un programma in televisione, e andò ad aprire il suo nascondiglio. C'era qualcosa di strano in lei, che avesse scoperto tutto? Ne ebbe la conferma nell'istante in cui guardò i suoi trofei di caccia: i capelli erano stati spostati.

Alice seguiva Matteo lungo il sentiero cercando di memorizzare il percorso, ma non era facile: non aveva mai avuto un buon orientamento. La paura del giorno precedente aveva lasciato il posto alla curiosità, molte domande le risuonavano nella testa. Era tutto frutto della sua fantasia? No, i capelli erano veri, li aveva toccati con le sue stesse mani. Vagarono per quasi venti minuti nel bosco, in un tratto non segnalato, per raggiungere la casa. Non sapeva neanche lei cosa si aspettava di trovarvi, ma sentiva che quel posto nascondeva qualche segreto. Quando varcarono la soglia un forte odore di chiuso e muffa le penetrò nelle narici. Salì al piano superiore, quello della camera, e aprì le finestre, qualche minuto, giusto per far circolare l'aria. Matteo la aiutò a scoprire il letto dal telo di plastica e a prendere le lenzuola pulite. Poi uscirono fuori a godersi il panorama. Matteo si mise al suo fianco e le cinse la vita, si baciarono. Alice poi, con la scusa di dover cucinare, rientrò in casa. Aprì il frigo e vi trovò della carne. La prese, ma suo marito la fermò subito: era il cibo per i cani. Strano, a casa non mangiavano mai carne, lui non voleva, gli rifilava sempre quelle crocchette del supermercato dicendo che era quello il loro cibo. Forse era carne scaduta. Più tardi, mentre Matteo dormiva, si alzò dal letto, tornò in cucina, si avvicinò al frigo e aprì il contenitore. Notò, tra quei pezzi di carne, quello che era di sicuro un dito umano. Si precipitò fuori, al freddo, e iniziò a vomitare, prima di svenire. Quando riprese conoscenza era di nuovo in casa e Matteo la stava legando alle sponde del letto. Per un istante i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di sorpresa, poi ricordò tutto.

"Volevi sapere...ecco ti mostro cosa facevo a quelle donne...avrai lo stesso trattamento...".

"Ma...perché? Chi erano? Quando è iniziata questa storia? È colpa mia?".

E mentre le tagliava via i vestiti di dosso, iniziò a raccontare: "Non è colpa tua, non lo è mai stato. Tu mi hai salvato, però non dovevi intrometterti, non dovevi curiosare...vuoi sapere come è iniziato tutto questo? La prima è stata Elena. Te la ricordi? Mi aveva preso per il culo con i suoi modi affettuosi, ma l'ha pagata. Poi, circa un anno fa, giravo di sera per il centro e mi vidi passare accanto una donna molto simile a lei. Sul momento pensai di avere di fronte proprio Elena. Incuriosito la seguii fino al locale ed entrai. Dopo poco mi accorsi che era un'altra persona, ma qualcosa dentro di me si era riacceso, avevo provato nuovamente il senso di potere che si sperimenta rubando una vita, e mi piaceva. A lavoro ero divenuto lo zimbello di tutti, i miei alunni non mi ascoltavano, lanciavano le sedie in aula durante le mie lezioni, mi deridevano. Avevo bisogno di amplificare il potere che mi dava la caccia. Alla fine anche noi siamo animali, giusto?". La violentò selvaggiamente, proprio come aveva fatto con le altre, niente sconti. E di nuovo svenne.

Al secondo risveglio era libera, ma nuda e in mezzo al bosco. Avrebbe voluto piangere e chiamare aiuto, ma non c'era nessuno. Prese a correre cercando di non sentire i tagli che le si stavano formando sotto i piedi, di non tremare per il freddo, cercò di sopravvivere. Aveva paura, ma combatté fino alla fine.