Riccardo Volpe, icona della bici fissa

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L’articolo di questa settimana è un po’ particolare, soprattutto perché non ha la forma descrittiva di un evento o di un componente, bensì è un’intervista. Vi presento una persona che ho avuto il piacere di conoscere anni addietro e che probabilmente alcuni lettori già conosceranno.

Riky, al secolo Riccardo Volpe, è un volto noto della scena ciclistica italiana e non. Classe 1976, è uno di quelli che ne combina di tutti i colori da parecchi anni, uno degli incorreggibili che hanno tenuto duro e che pedalano da quando la mia generazione era ancora in fasce. Non ha un vero e proprio habitat naturale: lo si può trovare in un velodromo come su strada, ma anche nei boschi, su strade sterrate, ghiaiose o acciottolate.

N: Riky, raccontaci i tuoi primi approcci con il mondo del ciclismo. Quando hai iniziato e con che bici?

R: A parte l’infanzia, sono capitato per età nel momento esatto dell’esplosione del fenomeno mountain bike in Italia. Tutti sognavano la Cinelli Rampichino ed io all’epoca mi accontentai di una buona mtb (un milione di lire dell’epoca eran tanti soldi). Pensa che il telaio ce l’ho ancora oggi e l’ho convertito da passeggio! Bici pesantissima ma ottima e con acciaio di qualità. Con questa bici assaporai le prime avventure in montagna; all’epoca abitavo in alta Valsusa. Un giorno mio zio Paolo mi portò con lui a fare un giro con la bici da corsa; mi prestò una sua vecchia bianchi, ovviamente non della mia taglia, 5 rapporti e 42 come corona più piccola! Beh, che tu ci creda o meno, ho ancora perfettamente in mente ogni attimo di quel giro: la scorrevolezza dei tubolari, la facilità con cui prendeva velocità rispetto a quel carrarmato di mtb, la sua leggerezza a confronto della mia bici mi fecero innamorare! Da allora a momenti alterni non ho più smesso di pedalare, ma diciamo che è negli ultimi dieci anni che la passione ha preso il sopravvento su tutto o quasi.

N: Come è cresciuta e come si è sviluppata la vera passione per il ciclismo? Come definiresti la strada che hai intrapreso oggi?

R: È cresciuta proprio in questi ultimi dieci anni, complice un trasferimento per lavoro e un ritrovato tempo libero, qualche amicizia giusta che rinvigorisse la fiamma della passione e la costanza nel pedalare che ha portato a riscontrare i primi progressi. Il bello non è tanto andar forte, ma piuttosto pianificare un giro lungo quanto vuoi e con quanto dislivello vuoi e non aver timore di portarlo a termine e di divertirti nel farlo. Ecco questa è la grande dote che l’allenamento ti dà. Oggi ho ancora tantissima curiosità per le cose che si possono fare in bici, non ho voluto focalizzarmi su nulla in particolare proprio per tenermi aperte tutte le possibilità, sia nei giri in scatto fisso sia nelle avventure su strade ghiaiose e polverose. Ecco, qui sta un po’ la nuova frontiera (abilmente fiutata dal mercato ciclistico infatti) in cui intendo sfidare me stesso. Una piccola avventura di più giorni sulle strade sterrate delle Alpi Occidentali che sento molto “mie”, ma abbiamo tempo per parlarne ancora!

Potreste chiedervi perché ho scelto proprio Riccardo per questa intervista. Ve lo spiego subito. Innanzitutto è una persona squisita. L’ho conosciuto circa tre anni fa, durante un’uscita in bici organizzata da alcuni amici in comune. Io ero ancora alle prime armi e quell’uscita mi rimase impressa per due motivi in particolare: il primo perché feci una fatica che provai poche altre volte nella vita; la seconda per la disponibilità e la gentilezza di Riccardo. Ricordo che gli altri amici mi avevano raccontato alcuni aneddoti su di lui, tra cui la collaborazione con Cinelli e la sua carriera in circuito, per cui io me lo ero figurato come un professionista con la puzza sotto il naso, spocchioso e superbo come molti altri ciclisti con cui avevo avuto a che fare. Niente di più sbagliato. Riccardo è tutto il contrario: è disponibile, paziente, umile e alla mano. Nonostante le sue ottime prestazioni non si è mai montato la testa, è schietto e semplice e diretto, mai megalomane o egocentrico. Credo che mi abbia colpito proprio per queste sue caratteristiche.

Dopo quell’uscita abbiamo fatto passare molto tempo prima di rivederci, anche perché io nel frattempo mi ero trasferito a Bologna. Tuttavia, una volta tornato a Torino, abbiamo riallacciato i rapporti. Prima era solo una fonte d’ispirazione, ora è innanzitutto un amico.

N: Scommetto che non sapevi nemmeno tu di questi retroscena! Ti ci ritrovi? Ti ho descritto bene oppure ho preso un granchio?

R: Beh, hai esagerato! Alla fine, da buon ciclista, ci tengo sempre a far quel pizzico in più degli altri. Però amo condividere quel poco di esperienza che mi sono fatto, veder crescere gli amici in questa passione mi gratifica moltissimo!

Da questa amicizia deriva anche questa collaborazione. Ebbene sì, è ufficiale: Riky sarà l’autore della prefazione del mio libro Mess Life che uscirà per Jona Editore. E questo è il secondo motivo per cui abbiamo deciso di intervistarlo. Iniziamo a farci un po’ di fatti suoi per davvero.

N: Il ciclismo, come lo intendi tu, è sicuramente un modo per divertirti. C’è qualcosa di più? Ti sei prefissato degli obiettivi? Quali sono i motivi per cui lo fai?

R: Assolutamente! Il divertimento deve essere alla base di tutto; lo stare bene nel momento esatto in cui stai facendo quella cosa è fondamentale. Per quello non mi prefiggo obiettivi, nel senso non mi dico ad esempio “voglio arrivare nei primi 5 in quella tal gara” ma bensì cerco di dare sempre il meglio di me e mi alleno proprio per avere di anno in anno più consapevolezza di quel che mente e corpo possono fare insieme. I motivi? Ti rispondere alla Walter Bonatti, il celebre alpinista, quando gli chiesero che gusto c’era nello scalare una montagna, e lui riposte semplicemente “perché è là.” Ecco, credo che si vada in bici perché ci sono al mondo talmente tante strade magnifiche che provare a percorrerne una gran parte credo sia un nostro dovere morale. E la bici è quel magico mezzo di locomozione che ha la giusta velocità per farti apprezzare quanto ci sia di bello in questo piccolo pianeta.
N: Non hai mai pensato di volerne fare la tua principale attività? Secondo te si può ancora vivere di ciclismo?

R: Cavolo, questa è una domanda spinosa, un po’ come chiedere cosa vorrai fare da grande. Sì certo, mi piacerebbe moltissimo far sì che la mia passione diventasse una occupazione a tempo pieno, ma per le ragioni che ti ho detto prima, e per quelle ovviamente anagrafiche, non credo che il ciclista professionista sia mai potuto esser nelle mie corde. Diversamente il raccontare e saper fotografare le bici bene come un certo John Prolly, beh, ecco sì, quello mi piacerebbe tantissimo, chissà.

N: Sicuramente quello del ciclismo non è un mondo semplice. Ci vuole tanta dedizione, sacrificio e determinazione. Che cosa ti spinge a farlo? In che modo vengono ripagati gli sforzi che fai?

R: Iniziamo con il dire che sì è un sacrificio, ma che assolutamente non pesa! O meglio, i primi 20 minuti dopo una gara od un allenamento particolarmente duro dici: “No, mai più”, ma poi subito dopo inizi a pensare a cosa poter altro fare in sella… quindi è più la dedizione che non il sacrificio. Tutto viene semplicemente ripagato dai sorrisi che vedo alla fine delle gare con le facce da ormai tanto tempo amiche oppure, quasi meglio, quando a qualche criterium vengo avvicinato da ragazzi giovani che mi dicono che grazie a quello che scrivo e faccio anche loro hanno iniziato andare in bici, fissa o meno che sia. Ecco questa è davvero una enorme gratifica ma nel contempo mi spinge a voler fare ancora meglio. Altra cosa è avere la possibilità di collaborare con aziende di peso come Garmin, Cinelli/Columbus e Sdam che mi supportano molto nelle semplici cose che faccio e sono il motore per la mia curiosità anche dal punto di vista tecnico e dei materiali.
N: Raccontaci come sei giunto a collaborare con dei brand così importanti.

R: Con Cinelli c’è una storia tutta particolare. Venivo dalla splendida esperienza del primo anno del Cykeln Racing Team con cui corsi una splendida stagione di criterium e fummo contattati proprio dall’azienda che, dopo anni a dominar le vendite sullo scatto fisso, voleva approntare anche una buona squadra corse. Da lì ci furono un po’ di peripezie e, per motivi di tempo e gamba (ammettiamolo pure), mi fu proposto di essere non un corridore del team ma un “brand ambassador” come si usa dire oggi, ovvero un portavoce e sostenitore del marchio. Questo ha comportato per me molta più libertà di movimento per unire quelli che erano i miei progetti personali nell’ambito dello scatto fisso e il loro grande supporto. Per gli altri marchi che ti ho citato, invece, tutto nasce dal mio blog personale e dal voler raccontare quello che è la mia visione di ciclismo. Per prima mi contattò l’agenzia di comunicazione della Trek, con cui nel 2015 ebbi una splendida esperienza alle strade bianche a Siena. Poi, tramite la medesima agenzia, entrai in contatto con gli altri marchi del settore.

N: Ti alleni secondo un programma o pedali solo quando ti va?

R: Anche qui la risposta è un po’ difficile; diciamo che raramente se sono in bici da solo riesco a risparmiarmi, proprio per questa continua sfida con me stesso che ogni volta mi spinge a dare tutto. Nella brutta stagione cerco almeno una volta a settimana di fare un’uscita nella nostra classica zona industriale a Torino e fare un po’ di esercizi specifici come rilanci e partenze da fermo. Ma mi limito a quello! Diversamente su di un percorso collinare o montano è già la natura stessa dell’itinerario a farmi fare le variazioni di ritmo classiche che ogni allenamento dovrebbe comportare.

N: Quali sono i percorsi più belli che hai fatto e i paesaggi migliori che hai visto? Consiglia ai lettori qualche itinerario che ti ha colpito maggiormente.

R: Sai, alla fine sono molto legato alla mia terra e alle sue montagne quindi non posso raccontarti qui di grandi viaggi in terre lontane. Trovo quasi tutto quello che mi serve proprio qui a pochi chilometri da casa. Uno dei percorsi più belli è senza dubbio la via dell’Asietta, da fare con una bici da ciclocross/gravel, sono molto legato a quelle salite e quelle montagne ed è comunque un giro accessibile con un minimo di allenamento. Anzi, tieni d’occhio il blog perché anche se in questi giorni ha nevicato, sto organizzando un group ride proprio su quelle strade che saranno, tra l’altro, le prime parti del Torino-Nice rally di settembre.
N: Quando sei al limite della sopportazione della fatica a cosa pensi per andare ancora avanti?

R: A volte la soluzione è proprio far l’opposto, cercare di non pensare a nulla! Provare a concentrarsi sullo sforzo, sul sentire le gambe che spingono e tirano sui pedali, e pensare che ogni giro di pedale fatto è un giro in meno di pedale da fare. Quando il corpo va in riserva ho trovato che è meglio che anche la mente non sia troppo in agitazione e si concentri su cose molto elementari ma essenziali. Ecco, di solito funziona.

N: Purtroppo sappiamo entrambi quanto sia pericoloso il ciclismo. Come ti relazioni con il pericolo? Che consigli ti senti di dare a chi non utilizza la bici, anche a livello urbano, per paura delle automobili? E agli automobilisti?

R: Be’, ormai le cronache sui giornali non riescono nemmeno a far notizia se l’investito non è un personaggio noto, e invece sai bene che è un vero e proprio eccidio. Ci vuole un mix di fattori nello stare in bici in città. Io comunque cerco di andarci tutti i giorni per non perdere quella coordinazione a tre occhio-mente-corpo che trovo essenziale. In primo luogo dico una cosa che in realtà è la più difficile da attuare: non avere paura! Essere sicuri di quello che si fa ed esser determinati nel fatto che le biciclette così come i motorini e le auto hanno pari dignità nel poter stare in strada: questo è il primo passo. La seconda cosa è farsi vedere: in primis con poca luce sono necessarie sempre luci a led belle luminose e intermittenti. Poi farsi vedere nel senso che nel 90% tenere strettamente la destra (come vuole il codice della strada e come desiderano la totalità degli automobilisti che ci sorpassano) è la mossa meno idonea e si capisce molto semplicemente il perché. Primo perché la prima portiera che si apre son dolori o peggio; la seconda è che negli incroci e nelle immissioni delle auto, se il ciclista è un po’ più verso il centro della sua corsia risulta molto più visibile anche da un automobilista distratto e questo a volte fa la differenza! Se vi suonano per passare fate gli gnorri e intavolate un paio di frasi nella lingua straniera che meglio conoscete, funziona quasi sempre.

N: So che hai un blog molto seguito e che per un periodo hai scritto per Cykeln. La tua è una semplice voglia divulgativa? Come mai hai iniziato a scrivere?

R: Ritengo che l’aprire un blog sia stato semplicemente una delle idee migliori della mia vita. Avevo appena cambiato lavoro e mi ero finalmente ritrasferito a Torino dopo due anni a Milano. Avevo voglia di creare uno spazio web mio semplicemente per fissare nella memoria una serie di ricordi che temevo si cancellassero. Alla fine si è rivelata una valvola di sfogo fantastica e mi sono ritrovato letteralmente affamato di scrivere e raccontare le emozioni che provavo quando ero in sella… ed ecco qui la crescita negli anni (ormai sei) del mio piccolo blog.

N: Immagino che molto spesso ti sia trovato a contatto con i corrieri in bici della tua Torino. Cosa pensi di loro e del loro mestiere che poi è il tema principale del mio libro per cui scriverai la prefazione?

R: In realtà conosco personalmente quasi tutti i corrieri di Milano, che nascevano ed iniziavano a camminare sulle loro gambe proprio nel periodo in cui io ero lì per lavoro. Innanzitutto voglio dire che, a mio avviso, è una delle leve attraverso la quale si possono rendere migliori le nostre città. Poi negli anni ne ho apprezzato la loro evoluzione, ora finalmente sono vere e proprie aziende con una loro struttura e flessibilità a seconda dei modelli di business che si vanno affermando. Questo è una vera svolta e rende chiaro che, anche se si è passati per quella fase, ora le compagnie di corrieri non possono più esser fatte da tre ragazzi con le proprie bici ed un telefono, ma serve porsi sul mercato affinché ai grandi clienti convenga scegliere dei corrieri in bici rispetto a quelli tradizionali. Dal punto di vista dei lavoratori del pedale li stimo moltissimo, è un lavoro duro e ci va molta testa per reggere quei ritmi e per aver la costanza di restare sei ore nel traffico anche quando piove, anche quando le strade sono ghiacciate e fa buio alle 17.

N: Sei contento di contribuire a questo progetto? Pensi possa servire a qualcosa?

R: Questo progetto pensa possa esser utile come porta di accesso ad un mestiere, proprio per la capacità del libro di definire tutti i contorni di una professione vera e propria! Quindi, ok i riflessi di immagine e stile di vita, ma come altri lavori (e forse anche di più) per fare il corriere in bici ci va davvero una passione e dedizione al di sopra della media e penso che l’opportunità di avere un quadro così ben raccontato sia perfetto sia per far capire agli indecisi che non è un’occupazione semplice (magari per chi è in cerca di altro), e sia per chi è titubante a dar la classica ultima spallata e a tuffarsi nel mondo dei corrieri in bici ed entrare dalla porta principale nel ciclismo urbano.

N: Perfetto, grazie mille per l’intervista e adesso mi raccomando: buona presentazione!