Mercoledì, 19 Dicembre 2018 21:59

Andrea Furlan - La diagnosi

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La diagnosi

“Il peggio deve ancora venire” pensò Giovanna, appoggiando la testa al finestrino del treno. Il freddo del vetro le dette un po’ di sollievo, anche quella mattina si era svegliata con il mal di testa.

Il chiacchiericcio del vagone la distolse un attimo dai suoi pensieri. Il solito brusio della mattina, fra i pendolari che si recavano a Milano. Di fronte a lei due studentesse che ridacchiavano, chiacchierando incessantemente da quando era salita. A lato un uomo in giacca e cravatta, elegante, che guardava qualcosa sul telefono.

Il movimento nella pancia fu lieve, come una carezza appena accennata. Istintivamente la sua mano toccò il punto in cui l’aveva sentito, poi rimase lì, rispondendo alla carezza.

La fitta arrivò subito dopo, la colse impreparata. Con uno sforzo resistette all’impulso di gemere dal dolore, mentre un grappolo di sofferenza le si formava sulla fronte. Le fitte così forti erano rare, mentre ormai si era abituata al dolore sordo e costante che l’affliggeva da qualche tempo.

Del resto, la dottoressa Boeri glielo aveva detto senza mezzi termini, alla prima visita, mentre esaminava le analisi del sangue: “i valori sono troppo alti. Non è mai una buona notizia. Ma per essere certi ci vorrebbe una TAC”.

Aveva sentito il cuore battere a mille, la vista offuscarsi, una scheggia di disperazione si era piantata nella sua nuca. Non era riuscita a dire nulla.

Poi, ripresasi dallo stordimento, aveva cercato di capire dall’espressione della dottoressa quanto cattiva potesse essere questa notizia, mentre mille pensieri le attraversavano la mente e una sola parola sovrastava tutto il resto.

Tumore.

Mercoledì, 19 Dicembre 2018 21:54

Selene Capodarca - La diagnosi

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La diagnosi

“Ambasciator non porta pena” si ripeteva senza alcuna convinzione Enrico. Era un mantra che gli risonava dentro ormai da venticinque anni, venticinque anni e tre mesi esattamente, dal giorno in cui consegnò la sua prima diagnosi.

Quella mattina di marzo, dietro allo scudo del suo camice bianco, guardò la paziente negli occhi e pronunciò quelle parole con simulata calma.

La sua voce aveva il tono distaccato con cui le aveva pronunciate tutte di un fiato la mattina stessa, davanti allo specchio del bagno: “midispiacenonsonobuonenotizieepatocarcinoma”. Era sicuro che anche l’espressione del suo viso in quel momento era quella che aveva studiato nel minimo dettaglio nelle sue prove mattutine. Le sopracciglia non l’avevano certo tradito: con una lieve contrattura muscolare avevano obbedito e si erano arcuate leggermente, quel tanto che basta a trasmettere l’empatia di cui a cui i pazienti si aggrappano quando il medico toglie loro la terra da sotto i piedi. Si chiedeva se fosse questo il motivo per cui le sue sopracciglia si erano appesantite in tutti questi anni, come i fili di un vecchio stendino, piegate sotto quei pesanti appelli di aiuto da parte dei suoi pazienti.

Eppure qualcosa andò storto quella mattina, o meglio, andò come sarebbe poi andato negli anni a venire, però questo Enrico non poteva saperlo.

Si era preparato bene, come nei film, ripetendo la scena più e più volte davanti allo specchio, cambiando tono, parole, espressioni e ritmo di respirazione: una pausa ed un respiro profondo dopo la parola “notizie” era una concessione che ci si poteva permettere, ma solo a patto di non tenere la paziente troppo in sospeso, passando subito ad elencare rapidamente le varie opzioni terapeutiche - ben poche in questo caso – senza indugi, una volta arrivati alla parola “epatocarcinoma”. E così, Fellini di sé stesso, fece entrare la paziente ed iniziò la scena. “Buongiorno dottore” sarebbe stato il suo ciak negli anni a venire, fino a che non arrivò a capire che non vi era alcuna differenza tra un copione studiato alla perfezione ed un atto di improvvisazione. A quel punto smise semplicemente di allenarsi allo specchio.

Lunedì, 04 Giugno 2018 11:13

Selene Capodarca - La morte di Ishtar

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Immaginavo fosse così. Passi la vita a pensare cosa faresti se ti dicessero che ti rimangono 6 mesi, un mese o una settimana e quando finalmente arriva il momento, a coloro che hanno la fortuna di sentirselo dire, niente ha più importanza.

Non importa se non mai ho nuotato con i delfini, se non ho imparato l’ucraino come avrei voluto, se non ho mai scalato il Machu Pichu, se non ho mai provato quello che sostengono di aver provato i poeti nelle loro tormentate poesie d’amore (morirò comunque convinta del fatto che mentano). Tutto sembra già così lontano adesso. E poi diciamocelo sinceramente, lo sappiamo tutti sin dall’inizio che sempre e comunque qualcosa deve restar fuori.

Mi sono sempre piaciute le linee pulite, i bordi definiti e le cifre tonde e quindi ho scelto la data del mio compleanno. Quel giorno mi hanno fatto entrare in questa vita e quel giorno me ne andrò. Puff

46 meravigliosi anni di cui non cambierei niente, se non la velocità con cui sono trascorsi.

Cazzo però, come al solito sono in ritardo! Ma è possibile che debba sempre fare tutto di corsa? Neanche la preparazione alla mia morte posso godermi in pace. Non ho ancora comprato la biancheria intima, devo andare dal parrucchiere, scegliere il vestito ed ho dei peli sulle gambe che potrebbe competere con la Selva Morena. Una laurea in medicina e due specializzazioni ed ancora non ho fugato i miei dubbi sul fatto se i peli continuino a crescere o meno anche dopo la morte. A parte l’orrore di immaginarmi cadavere peloso, non sopporterei l’idea che dopo una guerra feroce ed estenuante di tutta una vita a botte di cerette, pinzette e laser, alla fine avrebbero loro il sopravvento.

Tre giorni di tempo sembrano tanti, ma se inizi a pensare a tutti i dettagli di un suicidio fatto con tutte le regole, ti accorgi che sono ben pochi.

Anche scegliere il metodo non è stato semplice. Nei miei corsi di suicidio creativo ho sempre preso a modello il suicidio di Evelyn McHale. Che invidia! Se avessi la certezza del risultato sceglierei di morire come lei, ma in questi lunghi anni ho visto troppe scatole craniche fracassate ed arti disarticolati per poter sfidare la statistica. Voglio essere bellissima e soprattutto voglio essere sorridente.

Già! Sembra facile far sorridere un cadavere o anche soltanto trovare un complice che ti permetta di farlo. Ho pensato inizialmente di chiedere ad Aristide, uno dei pochi che non avrebbe fatto tante storie. Ma poi mi sono ricordata del suo gusto per le cose brutte ed ho rinunciato. Chissà come mi avrebbe trasformata. Sfidare la sorte sì, ma non fino a questo punto.

L’unica persona a cui avrei potuto chiedere è Mazen. Del resto è anche uno dei pochi ad aver saputo della diagnosi ed uno dei più fedeli sostenitori nonché collaboratori dei miei deliziosi suicidi. Quanti ne abbiamo ideati e realizzati insieme e sempre con grande soddisfazione nei risultati. Assistenti al suicidio perfetti!

Ho pensato comunque di chiedere consiglio ad Aristide, la sua creatività mascherata da falsa originalità (gli piace molto pensarsi così) mi ha sempre divertito. Come mi aspettavo mi ha proposto qualcosa di splatter, un’elettrocuzione che avrebbe provocato il black-out di tutta Dublino al momento finale della finale dei mondiali di rugby. Proposta bocciata per motivi estetici (non sopporto immaginarmi con i capelli arruffati), pratici (non avrei saputo come avere accesso alla centrale elettrica, l’unico collegamento che ho con i centri del potere elettrico è il tecnico della televisione che mi sono scopata per errore qualche anno fa) ed organizzativi (la finale cade a maggio, e questo manderebbe a puttane la cifra tonda dei miei anni). Però ho apprezzato l’idea.

Venerdì, 01 Giugno 2018 17:23

Nicola Rovetta - La morte di Eddy

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Era una vita che combattevo: alcune battaglie le avevo perse e altre le avevo vinte. Le molte volte che avevo perso, avevo perso proprio con me stesso, le sfide che mi ero prefissato come sognatore a occhi aperti si erano spesso e inesorabilmente dirottate fino a ricevere l'estrema unzione.

Gli studi che avevo fatto avevano arricchito, sì, la mia persona, non ero tuttavia riuscito ad usare quelle passioni come spunto di creatività. Non ero riuscito nell'intento di creare qualcosa di nuovo come avevo sempre voluto fare, e così erano rimaste lì a fare la muffa quelle semplici nozioni.

Era ormai da decenni che sentivo il mio intelletto deteriorarsi dentro il cranio, era sempre stata la mia paura più grande quella di ritrovarmi stupido e patetico. Vivere tanto per vivere, tanto valeva tornare allo stato di scimmia in modo da non patire le pene dell'inferno inutilmente, loro sì che erano fortunate.

Quella notte dopo aver procrastinato sulla latente depressione che mi portavo a zonzo, riuscii comunque ad addormentarmi, forse grazie alla vecchiaia le mie meningi erano tanto rallentate da permettermi il sonno anche in una situazione fitta di puro pensiero negativo.

''Hei tu, eccoti là. Come sei diventato patetico, io qua ancora danzo e ballo, la melodia della vita fluisce ancora leggiadra dentro di me. E tu cosa te ne fai li ad annegare nel tuo rammarico, vergogna''.

''Tu sei giovane e sveglio, a vent'anni... Ma cosa te lo dico a fare? Su dai lasciami in pace Eddy, non vedi che peggiori solo le cose''.

''Peggioro le cose, certo ma se non riesco a smuoverti tanto vale peggiorarle definitivamente non ti pare? E su dai che se ti metti d'impegno puoi ancora sfruttare quegli studi per trovare una piccola pezza di conoscenza che nessuno aveva mai osato, la fisica è li che ti aspetta''.

Mi svegliai di soprassalto, mi sentivo come ringiovanito e pronto all'azione. Era ancora buio e iniziai subito a ripassare alcune cose, ricordavo ancora bene tutto e ripresi quindi una vecchia idea che avevo lasciato nel cassetto per problemi di soldi, i soliti cari vecchi soldi.

In quel sogno il mio vecchio me di vent'anni aveva risvegliato qualcosa che non sentivo da tempo, mi sentivo ancora in grado di pensare e di decifrare il mondo che mi circondava grazie all'intuito e alla creatività.

Studiai a fondo ogni minimo particolare, non sembravano esserci problemi. Ero fiero di quello che stavo facendo, l'inquinamento degli oceani era un vero e proprio dramma negli ultimi anni. Ero forse riuscito a trovare un modo per aiutare i microorganismi a degradare la diffusissima plastica o era solo un falso intelletto ad aver soggiogato le mie speranze?

Da quanto tempo non vedevo quei muri, quel giardino, da quanto tempo non sentivo quell'atmosfera.

''Buon giorno, mi dica''.

''Salve''. Mi schiarii la gola per assicurarmi di avere il giusto tono nel presentarmi. ''Lei è il professore di microbiologia giusto?''. Avevo sentito dire che era molto qualificato per valutare al meglio la mia idea, lui stesso svolgeva un compito cruciale nella ricerca.

''Si, sono io. Mi dica''.

''Ecco, io avrei avuto un'idea che penso possa funzionare. È tutto scritto qua''. Gli mostrai il la mia cartella con tutto il materiale che avevo raccolto.

''Be’, grazie. Lo leggerò senz'altro''.

Da giovane non ero mai stato in grado di presentarmi adeguatamente ed ero certo che fosse fondamentale perché potessi essere preso in considerazione.

Erano sempre poche le lettere che ricevevo, e vidi subito chiaro il timbro dell'università. A due settimane dall'incontro con il professore, eccola finalmente.

Capii subito da come erano scritte le prime parole che la mia idea era inutile, ero fortemente rammaricato e arrabbiato. Da tempo non mi capitava di dare un pugno al muro, l'ultima volta non mi sarei mai potuto fare tanto male. Me ne andai subito a dormire come sotto l'effetto di qualche strano sonnifero.

''Ecco, lo vedi. Sei un buono a nulla, incapace''.

''Cero, solo quello sono sempre stato''.

Quel giovane davanti a me non potevo essere io, rideva, rideva della sua stessa disgrazia. Rideva e mi insultava, come poteva volermi tanto male.

Mi sono svegliato di soprassalto con l'assordante rumore delle sue risate nelle orecchie, sono saltato di colpo dalla finestra come sotto l'effetto di una strana droga, come se fossi ancora nel sogno.

E adesso, in questa mia ennesima ed ultima caduta, non ho più, finalmente, nessuno ad aspettarmi al varco.

Giovedì, 31 Maggio 2018 16:18

Debora Gatelli - La morte di Prisca

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3 Luglio 2018, ore 11.30, Ospedale Saint Jean, Bruxelles, modalità gemello buono.

La sala d’attesa è strapiena, il mio appuntamento è adesso ma la dottoressa è in ritardo, dunque dovrò aspettare. Anche la Vichinga numero due è in ritardo, il termine per il parto scadeva il primo luglio ma lei di nascere non ne ha proprio nessuna voglia. Infatti sono qui per il controllo e per il monitoraggio: se non si smuove nulla nei prossimi quattro giorni dovranno indurmi le contrazioni.

A me in effetti non dispiace affatto tenerla dentro ancora un pochino. Mi piace essere incinta, non mi dà nessun fastidio e per tutta la gravidanza ho continuato a condurre la mia vita quasi come se niente fosse.

Davvero non capisco tutte quelle donne che dal settimo mese in poi cominciano a lamentarsi, dall’alto dei venti e passa chili che hanno messo su, con piagnistei del tipo: “Non ce la faccio più, non vedo l’ora che esca, non riesco nemmeno a camminare”.

Io sono molto più preoccupata per quanto riguarda il dopo! Quando la nanetta avrà messo piede fuori dalla mia pancia, allora sì che il gioco si farà impegnativo; ecco perché evito di pensarci troppo e mi godo gli ultimi giorni di quiete. In fondo, finché sta dentro, non piange e non ha bisogno di nulla.

Sto aspettando già da più di un’ora, per fortuna mi sono portata un libro da leggere. Le riviste in francese che vedo sul tavolino non sono certo il mio genere; non seguivo il gossip quando vivevo in Italia, figuriamoci qui in Belgio dove non conosco nemmeno minimamente i protagonisti delle pagine patinate.

La vichinga numero due continua a muoversi e a puntare i piedi contro la mia vescica, ma non ci casco più: sono tutte finte, ormai l’ho capito. Andrò in bagno per la terza volta da quando sono arrivata, sperando sia l’ultima. Ecco, una cosa che non mi mancherà della gravidanza è la navetta ininterrotta verso la toilette, di giorno ma soprattutto di notte.

“Madame Aramini?” la dottoressa si affaccia alla porta con la sua solita aria brusca e sbrigativa. Magra, scattante e con i capelli corti, è una che non bada ai convenevoli, ma un sorriso e una breve frase di scuse per il mostruoso ritardo con cui mi sta ricevendo avrebbe anche potuto produrli.

“C’est moi”, mi affretto a rispondere mentre scatto in piedi sorridendo al posto suo. Chissà perché mi sento sempre in dovere di compensare le mancanze degli altri? Quando la finirò di agevolare sempre il compito a tutti anche quando sono in torto marcio?

Comunque, finalmente mi visita e in dieci minuti al massimo mi liquida: “Voilà, tutto tace signora, nessun segno di contrazioni e tanto meno di dilatazione. Ci rivediamo tra tre giorni alla stessa ora, cerchi di muoversi parecchio e faccia le scale il più possibile”.

Insomma ho perso praticamente tutta la giornata per sentirmi dire sempre la solita cosa. Ora ho giusto il tempo di arrancare verso casa, mangiarmi un panino al volo e poi incamminarmi verso il nido per recuperare la Vichinga numero uno.

Mercoledì, 30 Maggio 2018 16:28

Alessandra Ceccoli - Sono una vera dura

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Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Mercoledì, 30 Maggio 2018 16:28

Angela Colapinto - La morte di Margherita Solani

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16/12/2033 – ore 20:00

Scrigno non mi serve più al bancone appoggiando distratto il solito calice di bianco fermo mentre prende un'altra ordinazione. Adesso mi riserva un tavolo, il mio preferito, quello nell'angolo vicino al palco. Sa che mi piace la musica, e che soprattutto mi piacciono i musicisti giovani, avidi di esperienze e di racconti. Fare sesso con una milf è una delle cose da collezionare nei loro tour e da raccontare ad amici e fan. Fare sesso con un musicista invece è un modo per tenermi in allenamento ed essere sempre al passo con gusti e perversioni.

Questa sera ho voglia di festeggiare: diciassette anni fa mi trovavo a Firenze, davanti a Santa Maria del Fiore, avvolta dalla nebbia. Ero là per un incontro, un uomo che non avevo mai visto prima ma che mi avrebbe fatto una promessa, la più importante.

Entro e vado diretta verso la targhetta con su scritto Riservato Solani. Noto il palco vuoto, nessun tecnico del suono al mixer. Mi tolgo il cappotto e lo appoggio sulla sedia accanto alla mia, slaccio il foulard quel tanto che basta per lasciare scoperto l'inizio del seno, tiro fuori le sigarette, bisogna sempre prepararsi un alibi per le conversazioni troppo pesanti.

«Il solito whiskey?»

«Sì, grazie. Scusa Scrigno, questa sera non suona nessuno?»

«Margherita è mercoledì, è la sera della settimana in cui di solito rimorchi semplici clienti».

Ogni sera della settimana ha le sue abitudini, da molto tempo, e il mercoledì è la prima in cui mi affaccio sul mondo esterno dopo il fine settimana. È la sera in cui mi piace tentare la sorte e provare per pochi istanti quella piacevole ansia data dall'incertezza. Voltare le spalle all'intero locale aspettando di vedere la sedia muoversi e una voce maschile chiedermi se può accomodarsi.

Sfilo una sigaretta dal pacchetto e mi dirigo verso l'uscita. Scrigno mi fa segno di andare nel retro, gli dico di no, ho bisogno di una boccata d'aria fresca. Quando rientro il whiskey non è ancora arrivato. Mi siedo con le spalle sempre rivolte alle persone.

Una mano compare alla mia sinistra e avvicina un bicchiere alle mie labbra. Non dice una parola, non dico una parola. Lo sfioro e lui lo inclina fino a farmi scivolare un po' di quel liquido bianco in bocca. Lo mando giù.

Dalla mia reazione deve aver capito che non mi è dispiaciuto, così ripete il gesto.

Mi scioglie i capelli e lascia che cadano sulle mie spalle, poi sposta il cappotto e si siede.

«È vodka, liscia».

«È buona».

«Ne vuoi ancora?»

«Vorrei il mio whiskey se a te e a Scrigno non dispiace».

Fa un gesto verso il bar e in un attimo quello che ho ordinato si materializza davanti a me.

Avrà poco più di vent'anni, potrebbe essere mio figlio se dimostrassi davvero l'età che ho. Potrebbe esserlo ugualmente ma la cosa non mi interessa e pare non interessare nemmeno a lui.

Non chiede niente di me e non racconta nulla di sé ma conversa e lo fa divinamente. La noia che abita con tanta facilità le mie giornate scompare all'improvviso e mi trovo a ridere di gusto, per la prima volta dopo Andrea.

Alla nostra prima consumazione se ne aggiunge una seconda e poi una terza, alla quarta dico no, voglio restare lucida, voglio ricordarmi di lui. Si dirige verso la cassa e salda il conto, Scrigno da lontano mi fa l'occhiolino, segno che non gli devo nulla.

Il ragazzo torna da me, prende il cappotto dalla sedia e mi aiuta a indossarlo.

«Abiti qui vicino?»

«Sì».

«È perfetto».