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Discussione sulla verità tra Dante e Guido Cavalcanti1

Luogo Firenze.

Anno: intorno al 1290.

Scena: in una stanza di un'accademia poetica fiorentina.

Sono presenti alcuni studenti averroisti che iniziano una disputa e tenzone tra loro.

“Che cos'è la verità?” chiede uno studente ad un altro studente.

“Ciò che non è falso” risponde il secondo.

“E cosa sarebbe allora la falsità?” chiede di nuovo il primo.

”Ciò che non è vero.”

“Bravo per l'eleganza nel fuggir senza rispondere. Una definizione che rincorre l'altra e nessuna delle due veramente definita o spiegata nelle sue funzioni, qualità e substantia.”2 risponde contrariato il primo studente averroista.

“E quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” si difese il secondo studente averroista.

“Potevi rispondere che la verità è luce o allontanarsi dalle tenebre che ricoprono le menzogne, se proprio non avevi nulla di meglio da dire, ma questa è una domanda che ho posto io e non sono io che devo necessariamente rispondere a ciò.” rispose il primo studente averroista.

“E allora risponderò io.” si intromise Dante alzando il dito per inserirsi nella disputa e portarsi al centro della stanza.

“E io controbatterò volentieri su una questione così alta.” rispose Guido Cavalcanti alzando anch'egli il dito e portandosi al centro della stanza.

I due studenti averroisti, visti entrare nella discussione due maestri di punta dell'accademia, si ritirano in silenzio salutando con un cenno del capo ai bordi della stanza come spettatori.

“Quindi quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” chiese Cavalcanti a Dante.

“Le stesse funzioni e qualità che hanno Dio, gli Dei e i suoi prodotti che sono luce e chiarezza.” rispose Dante.

“Sarebbe a dire?” chiede Cavalcanti.

“Che la verità è un prodotto degli Dei o di qualcuno che tende ad avvicinarsi verso di loro.” risponde Dante.

“Qualcuno chi?” chiese Cavalcanti.

“Chiunque decida di tendere verso il vero.”

“”Questo implicherebbe che la menzogna sia un prodotto di Satana e demoni o di qualcuno che tende verso di loro.” controbatte Cavalcanti

“Niente di più vero, ma queste due cose sono i limiti estremi a cui qualcuno tende o può arrivare. In mezzo a questi due limiti, esiste tutta una gradazione e combinazioni di verità e menzogne, che crea il mondo popolato di figure e atteggiamenti veritieri o menzogneri, nel quale viviamo.” risponde Dante.

“Avete dato la definizione di Inferno e Paradiso Ser Dante.” rispose Cavalcanti.

“E anche quella di purgatorio se la guardate bene. Un giorno lo spiegherò meglio da qualche parte.” rispose Dante.

“Vero. Tra Dio e Satana risiede una zona intermedia di menzogne e verità che si potrebbe chiamare benissimo purgatorio come dicono i nuovi teologi3.

Ma il paradiso e inferno dove si troverebbero se la terra per come la percepiamo noi, agisce e si comporta come un immenso purgatorio animato da noi stessi?” chiese Cavalcanti.

“Il paradiso o l'inferno sono i luoghi di destinazione finale che indicano la strada che prenderà ciascuno di noi a secondo che faccia bene o male.” rispose Dante.

“Intendete dire le nostre anime?”

“Intendo dire noi. Noi siamo la nostra anima.”

“E i nostri corpi di carne cosa sarebbero allora?” chiese curioso Cavalcanti.

“Corpi materiali animati da noi stessi, con i quali ci muoviamo e interagiamo nella materia.” rispose Dante.

“E per ora, tornando a Dio e alla verità?” chiese Cavalcanti.

“Per ora si da il caso che per tendere verso Dio occorre essere sinceri e per allontanarsi da lui occorre essere menzogneri, e questo ha molto a che fare con la verità.” risponde Dante.

“Ma come può un uomo che per definizione non è Dio, tendere o avvicinarsi a Dio, che non è per definizione uomo né materia alcuna, ma un'essenza creatrice, che si trova ovunque uno vada?” chiese Cavalcanti.

“Perché essendo l'uomo figlio di Dio, è anch'egli un piccolo Dio che deve crescere, e visto che Dio è verità, anche l'uomo se vuol essere tale a suo padre, deve seguire tale via, se vuol crescere e raggiungere suo padre naturalmente.” risponde Dante.

“State confermando che siamo fatti della stessa essenza di Dio.”

“Vero, la verità viaggia con luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e l'amabile visione di Beatrice.” rispose Dante.

“Beatrice la vostra donna luminosa?” Chiese cavalcanti.

“Beatrice colei che dà e concede beatitudine.” rispose Dante

Appena udite queste parole, interviene interrompendo il dialogo, uno degli studenti averroisti, molto incuriosito e interessato da quanto dante aveva appena detto.

“ISTANZA4, Ser Dante.” intervenne ad alta voce uno studente alzando la mano.

“Ditemi.” rispose Dante.

“Costei è un essere vero e reale o è solo una visione luminosa vostra ser Dante?” chiese lo studente.

“Questi sono fatti confidenziali miei, simili a molti di quelli che capitarono a diversi trovatori provenzali, che ho già spiegato e mostrato al qui presente Guido Cavalcanti e ad altri amici rimatori di quest'accademia, che hanno visto e vissuto fatti simili ai miei, e mi sono qui testimoni in questo momento.”

“Vorreste spiegarli meglio anche a noi Ser Dante?” chiese lo studente.

“No, non intendo spiegare a chi non ha vissuto o provate personalmente queste cose, perché occorrerebbe tentare di spiegare e definire a parole, cose che uno non ha mai visto o sperimentato, oltre a dover definire diversi altri termini come vita, Dio, Dei, spiriti, anime e altro, che richiederebbero discussioni e spiegazioni ben più lunghe di questa.” rispose Dante allo studente averroista fermando sul nascere una digressione troppo ampia che avrebbe portato molto lontano dalla disputa iniziale.

Interviene pure Guido Cavalcanti verso lo studente averroista.

“Vero. Io come molti altri poeti stilnovisti di quest'accademia, sono testimone di quando appena udito, e confermo che Ser Dante ha mostrato e spiegato nei dettagli a me e ad altri cosa sia e come sia fatta Beatrice, e vi posso dire che non è cosa che tutti possano comprendere senza vedere, e vedere senza apprendere in un'istante chi o cosa possa essere costei.“

Lo studente abbassò la mano e fece con un cenno del capo e un invito a continuare la discussione tra loro.

LA DISCUSSIONE SULLA VERITÀ RIPRENDE TRA DANTE E CAVALCANTI

“Avete detto poc'anzi, che la verità viaggia assieme a luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e amabile visione di Beatrice, ossia colei che da beatitudine. Giusto ser Dante?”

“Giusto.” confermò Dante

“Ora da quanto detto sopra sembra che stiate descrivendo le qualità della luce pura che hanno le pietre filosofali, e degli spiriti superiori che diventano visibili sotto la luce pura di quelle pietre5, come dicono filosofi e alchimisti, Ser Dante.”

“E cos'altro potrebbero essere queste cose, se non prodotti e opera di Dei decaduti e caduti sulla terra?” rispose Dante.

“Dei decaduti e caduti sulla terra per quale motivo?” chiese Cavalcanti.

“Per essersi allontanati dalla verità. Costoro hanno perso potere e sono finiti a vagare sulla terra, dove un dì sperano di tornare potenti come una volta.”

“Ma questo introduce il politeismo di tipo cataro dei perfetti provenzali6.”

“Questo non introduce nulla di nuovo, poiché il Dio unico è sempre quello. Caso mai spiega che gli Dei furono scacciati dal Dio unico, persero potere per essersi allontanati dalla verità e finirono sulla terra come seguaci di Lucifero, dove forse stanno tuttora. Gli Dei esistevano anche prima che il Dio rimanesse unico e solo.” rispose Dante.

“E perché allora costoro non sono più in cielo?”

“Forse perché si allontanarono dalla verità e si misero a tradire la loro missione che era creare ordine nell'universo come un astronomo può ben osservare nei movimenti regolari del cielo, e finirono per creare caos e disordine qui sulla terra, come chiunque veda una guerra tra uomini e il suo campo di battaglia.” rispose Dante.

“Tutto questo è interessante come discussione filosofica, ma dovreste provare a dirlo con l'inquisizione che sta distruggendo i perfetti catari per aver sostenuto cose simili.”

“Non so spiegarvi perché i perfetti catari vengano perseguiti, ma la nostra tradizione dice che i demoni furono seguaci di Lucifero che finirono puniti sulla terra, e se vi piace cercare la verità delle cose, anche l'inquisizione potrebbe essere un loro frutto finiti sulla terra.

Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore Dai loro frutti conoscerai il loro Dio. Ricordate questi versi del vangelo?”

“E allora in ultima analisi, che cos'è la verità? chiese Cavalcanti.

“È qualcosa per cui siamo stati fatti, e si trova ovunque tu vada?”

“Come Dio? Anche lui è ovunque tu vada?” chiese Cavalcanti.

“Sì, ma la verità non ti sta guardando, né seguendo. Sei tu.”

“Io?” rispose un po' spiazzato Cavalcanti

“Sì. Tu e chiunque altro sia vivo. Tu sei verità e scacci o attiri menzogne, quando ti allontani o avvicini ad esse.”

“E Dio?” chiese Cavalcanti.

“Anche lui è in te ed è fatto di luce e verità.” rispose Dante.

“Ma allora chi siamo noi?”

“Esseri spirituali decaduti e finiti nella materia.” continuò deciso Dante.

“E di che cosa sono fatti i nostri spiriti?” chiese curioso Cavalcanti.

“Siamo fatti come il cielo e le stelle, della stessa sostanza luminosa degli Dei.

E da qui in poi non mi chiedere altro, perché io non ti dirò più altro.” concluse il discorso e si ritirò in silenzio Dante.

1Guido Cavalcanti, poeta fiorentino del '200 amico di Dante. All'epoca Dante e Cavalcanti erano entrambi esponenti di spicco dello stilnovismo italiano.

2Substantia - Sostanza, letteralmente ciò che sta sotto a qualcosa.

3Il concetto di purgatorio, pochi anni prima di Dante, ancora non esisteva ed era stato appena introdotto da pochi anni come verità teologica.

4Istanza- Letteralmente In-Stantia - Stiamo in questa stanza o luogo.

5Le pietre filosofali erano pietre preziose tagliate a prisma, che scindevano la luce nei colori dell'arcobaleno, e molti alchimisti e filosofi osservando quel fenomeno nuovo per l'epoca, credevano che quelle pietre fossero state lasciate cadere dagli Dei sulla terra, e avessero proprietà superiori tutte ancora da scoprire. (N.d.A.)

6I catari erano fedeli di un'eresia proibita e perseguitata in Provenza nel periodo di Dante, che tramite la conoscenza spirituale, potevano diventare perfetti, e si facevano chiamare con tale nome coloro che raggiungevano tale stato..

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Capita che i pensieri siano come fumo che si dissipa nell'aria: così denso appena esce dalla bocca ma disperso e invisibile poco dopo. Chiari e lucidi un solo istante nella mente ma subito dopo confusi e dimenticati. Spesso anche i sogni si comportano così. Sarà forse per colpa degli occhi, che assimilano e processano ogni sfumatura e sovrastano l'immaginazione, che tanti si fermano alla mera superficie senza approfondire?

Così pensava Antonio, cieco da un occhio, mentre fumava la prima sigaretta della mattinata.

Ho il cervello pieno zeppo di parole che però non vogliono uscire, non perché io sia timido o muto, ma perché appena cerco di incollarle insieme per creare un discorso logico si sciolgono e frammentano come se non sapessero più come tenersi mano nella mano. Mi basta tenere il mio occhio buono chiuso per sollevarmi da terra e, attraverso i suoni della città, volare lontano... il problema è che, tornato alla realtà, non posseggo i mezzi per tramutare quel volo in emozioni comprensibili. É allora inutile la mia sofferenza? Quindi si combatte in quel che si pensa credere, senza secondi fini o assurdità, con una luce fioca ma accesa. Si, una lucina accesa. Basta vivere nel completo buio, non ne posso più e spero che qualcuno mi capisca anche se la mia "luce accesa" è il mio occhio spento; è la mia personalissima possibilità di far danzare la mente con se stessa senza farla vedere a nessuno. Qual è il problema dunque? Il male, la sofferenza, il triste sanguinare di una realtà che non sempre mi appartiene? Ma cos'altro potrei fare se non sognare? Devo andare avanti dritto, non ci sono alternative. Solo quando è troppo tardi si cerca una soluzione per poi lamentarsi del dolore... ma è meglio così: conoscendo il dolore diventeremo più forti dicono.

Una mente disturbata o lucidissimi pensieri di un uomo di mondo? Sappiamo davvero distinguere la differenza tra giusto e sbagliato? Tra bene e male? Non è forse vero che ogni anima legge il proprio presente in modi diversi, con occhi diversi, con sguardi diversi, con parole diverse, con sentimenti ed emozioni diverse? "Ci si può considerare liberi finché la nostra libertà non lede quella altrui". Liberi dunque non lo saremo mai, perché ogni azione, che sia essa attiva o passiva, lede o modifica l'azione altrui; in pratica siamo destinati a rompere i coglioni alla gente con il solo respirare.

Spense la sigaretta e si diresse a prepararsi il secondo caffè, strascicando i piedi a fatica nel suo pigiama ancora tiepido, per trovare una scusa con se stesso e fumarsene un'altra. Aspettando lo scatarrare della moka si sedette e ancora una volta, chiudendo l'occhio buono, preferì allontanarsi dalla realtà.

Sarò il solo ad avere questi pensieri o ci sarà altra gente come me? Altri che si rifugiano attraverso una finzione da un mondo surreale? Magari altre persone mascherano meglio il loro sentirsi inadatti, io non ci riesco, dovrei incontrare qualcuno come me e chiedergli come si fa... ma così vivrei la sua finta realtà, così indosserei la sua pelle. Anche quello sarebbe inutile, come vincere a videogames con codici e trucchi: arrivi alla fine ma perdi il gusto della vittoria. Devo per forza arrivare da solo ad una soluzione e capire perché le giornate mi sfuggono di mano. Devo per forza trovare il modo di tramutare l'imbarazzo in esplosività e smettere di sottostare alle mie inadeguatezze. Devo per forza alzare la testa e capire il mio posto nel mondo delle ombre, per evitare di diventare cieco del tutto alla realtà. Devo, per forza. Dentro di me è tutto così chiaro ma là fuori... là fuori è diverso. Tutto cambia quando mostro alla mia pupilla i colori di una verità che non è apparente ma sin troppo solida.

Tornò alla realtà per pochi istanti: bevette il caffè bollente e subito andò sul terrazzo. Seduto sulla seggiolina da campeggio si accese l'ennesima Marlboro.

Però pensandoci bene la mia vita non fa troppo schifo, ho una donna, una casa, qualche lavoretto... e allora cos'è? La paura di un futuro sempre più incerto? Il terrore di trasformarmi in ciò che ho spesso ripudiato? Perché non riesco a dare un senso alla vita che inesorabilmente mi passa davanti come la pellicola di un vecchio film? I trucchi di magia che ho imparato da bambino non bastano più, è ormai inutile nascondersi dietro ad un fazzoletto magico, c'è bisogno di più energia, più potenza, più coraggio. Già, coraggio, il coraggio di affrontarmi tutte le mattine e combattere contro il mio occhio cieco, che altro non fa che sognare e distillare dubbi dalle immagini che l'occhio buono gli manda. Forse il problema è solo quello, la visione che ho del mondo, sempre a metà. Sento le mezze verità, le mezze parole, le mezze bugie, fumo mezza sigaretta, bevo mezza bottiglia, faccio mezzo pieno alla macchina, sto in mezzo alla strada, mi lavo a metà, vivo a metà. Potrei magari trasformarla in qualcosa di positivo... potrei trovare in questa esistenza a metà la pienezza dell'assimilare solo la parte interessante ed elaborare, risolvere ed espellere l'altra parte. Prendere i mezzi sorrisi come gesto d'affetto e non come sorriso di circostanza, prendere una pacca sulla spalla come un mezzo incoraggiamento e non come un "Povero sfigato, ci hai provato"; potrei prendere un "Ciao, come stai?" come un genuino interesse verso di me e non un semplice saluto.

Sarà difficile vedere la parte bella delle cose, mi sono allenato così tanto ad ignorarla che inizialmente sarà quasi impossibile anche solo da scorgere. Passato qualche tempo però può darsi che io riesca a sentire in corpo solo quella, così da non dovermi rifugiare nella rabbia del buio ma finalmente vedere la tanto pubblicizzata bellezza del mondo. É deciso.

Aprì l'occhio e fece appena in tempo ad abituarsi alla luce e guardare il sole che un merlo, per chissà quale assurdo destino, gli si schiantò addosso centrando con il suo becco arancione la nera pupilla buona, rendendolo completamente cieco.

E allora vaffanculo.

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Dalla finestra del mio studio intravedo, oltre il giardino, il bosco di querce che si estende dietro la casa, fino alla zona industriale, e nasconde alla vista gli antiestetici capannoni. Quando io e Irene abbiamo comprato la villetta, prima di sposarci, la vicinanza di quelle costruzioni, anonime e un po’ squallide, è stato un problema per lei. Ma io mi sono innamorato subito di questo posto: in origine era un vecchio casale, ristrutturato diversi anni fa, quando i campi hanno iniziato a essere cancellati dall’espansione edilizia e dalle lottizzazioni. Prima di venire ad abitarci abbiamo fatto un ulteriore restauro, adattandola ai nostri gusti e alle nostre esigenze: nel tempo tra noi e questi muri si è stabilita una sorta di simbiosi, uno scambio di energie positive a cui adesso è difficile sottrarsi. Qui si ha la sensazione di essere in campagna, isolati dal resto del mondo, seppure non lontani dal centro: per arrivarci basta percorrere la nostra piccola strada a senso unico fino all’incrocio con la via principale del quartiere, girare a destra e dopo circa una cinquantina metri immettersi nella strada provinciale, che cinge la città come un anello. Quando non si è pressati dal tempo è piacevole anche fare il tragitto a piedi, o in bicicletta. Il giardino circonda la casa: un muretto, sovrastato da una rete, e un cancello ne separano la parte anteriore dalla strada; il retro, che ne è anche la parte più estesa, si allarga per parecchi metri quadrati, quasi trecento e, se non fosse delimitato dalla recinzione, si confonderebbe con uno dei pochi prati rimasti in questa prima periferia, non ancora attaccato dalla cementificazione scriteriata degli ultimi anni. Appena siamo arrivati qua Irene si è anche impegnata nel trasformare un piccolo rettangolo del terreno in un orto minimalista, più per il gusto di mettersi alla prova che per altro. La sua soddisfazione nel portare in tavola i prodotti di quella striscia di terra, che si era ritagliata tra i cespugli di bosso e di forsizia, è sempre stata motivo d’ilarità: pomodori un po’ rachitici e insalata spesso già spigata, ma fonte di grande orgoglio per lei, nata e cresciuta in una grande città del nord, dove l’unico verde che vedeva era quello del parco dove andava a correre in primavera e in estate.

Passo molto tempo in casa, soprattutto in questa stanza, da quando l’incidente mi ha costretto a limitare gli impegni. Del resto, è sempre stato l’ambiente che ho amato di più. Io e Irene abbiamo deciso di farne il nostro studio ancora prima di trasferirci qui in modo definitivo, forse già dalla prima volta che abbiamo visto la casa: molto grande, con i soffitti alti, il parquet di un bel rovere dai toni caldi, di fronte alle due finestre un camino imponente, con la cornice in legno intagliato, del tipo preferito da mia moglie, che è stata sempre condizionata dalla sua passione per le atmosfere inglesi nella scelta dell’arredamento. Ha sempre detto: «Per me essere qui è come essere dentro un romanzo di Jane Austen.». È rimasta quasi delusa quando, durante il nostro primo viaggio in Inghilterra insieme, abbiamo visitato delle dimore storiche e notato quanto fossero bassi i soffitti di alcune vecchie abitazioni. Le è piaciuto da impazzire arredare la nostra tana, e qui tutto parla di lei. Sullo schienale della poltrona, accanto al focolare, è posato il suo scialle, quello tutto colorato, tessuto dalla sua amica Paola che, tra un impegno e l’altro della professione di avvocato, si ritaglia degli intervalli per eseguire lavori al telaio, che poi regala ad amiche e parenti. Il miscuglio di sfumature è del tutto bizzarro, fuori da ogni logica: il giallo alternato al fucsia, e poi turchese, arancione, verde mela, rosso. Sembra l’opera di un messicano un po’ fuori di testa: sul nero della pelle della poltrona è come un’esplosione di allegria in una giornata tetra, fuochi d’artificio che irrompono nel buio della notte.

Il bagliore generoso e avvolgente della fiamma nel camino mi fa pensare ai pomeriggi passati qua dentro: lei immersa nella lettura dei suoi adorati libri e io che lavoro a qualche progetto al tecnigrafo: ho sempre avuto l’abitudine di portarmi del lavoro a casa. Quando fuori c’è la neve, come adesso, per esempio. Ma non solo: qui mi concentro di più, i miei progetti migliori sono usciti da queste quattro pareti. Non abbiamo mai messo le tende alle finestre, tanto lì dietro, oltre il recinto, ci sono solo il prato e il bosco. Il paesaggio, a cui le finestre fanno da cornice, oggi è davvero incantevole: sembra una cartolina di Natale, anche se il Natale, fin troppo piovoso quest’anno, è ormai un lontano ricordo. Si cominciava già a pensare alla primavera quando c’è stata questa recrudescenza dell’inverno. Era da tanto tempo che non nevicava così e io avevo quasi dimenticato quanto fosse piacevole starsene al caldo della legna che brucia, circondati dal silenzio protettivo del soffice strato candido teso a ricoprire tutto e quasi messo lì, come una coperta sotto cui rannicchiarsi, dalla sollecitudine premurosa di un vecchio amico. Il rumore della strada arriva attutito fin qui: il fruscio soffocato delle ruote che scivolano sulla neve e la cacofonia metallica delle catene. Ma il silenzio è più forte, avvolgente, rassicurante. Suggestivo.

«Luca, ti va un po’ di musica?», la domanda immancabile di Irene in momenti come questo. Le è sempre piaciuto ascoltare brani di musica in casa, ancora di più se insieme a me. Le note di melodie barocche, le sue preferite, sono risuonate talmente spesso qui dentro che, a volte, sembrano prendere vita da sole e scaturire dalle pareti che le hanno assorbite nel tempo.

La sera in cui siamo andati a cena da Guido e Miriam, Irene è uscita di casa prima di me e, quando l’ho raggiunta, era già al volante della sua macchina. Stava ascoltando un concerto di Tartini, il cd era di sicuro già nel lettore ed era partito non appena lei aveva acceso il motore.

«La tua è in garage, inutile tirarla fuori adesso.», mi ha detto. «Dai, salta su che siamo già in ritardo! Sei sempre il solito, tu!».

Era euforica. O nervosa: in fondo avrebbe preferito starsene nella nostra bella casa, “la casa di Nora felice”, è così che l’ha chiamata. Aveva anche proposto, con uno di quei guizzi di incantevole follia per cui m’ero innamorato di lei, di mettere una targhetta con quel nome accanto al cancello. Ero riuscito a dissuaderla, ma era stata dura. Fosse stato per lei, Ibsen avrebbe dovuto scegliere un’altra conclusione per il suo testo, perché l’intenzione di lasciare me e la nostra dimora amatissima non l’avrebbe mai neanche sfiorata, è quello che ha sempre detto ridendo, ma con gli occhi seri.

Quella sera pioveva, neanche poi tanto, una pioggia che durava da quasi una settimana ormai, tipica del mese di novembre in questa zona. Lei parlava in continuazione, aveva tante cose da raccontarmi perché il giorno prima era rientrata da una visita alla sua famiglia: aveva rivisto anche delle vecchie compagne di scuola di cui io mi ricordavo appena, per averle incontrate al nostro matrimonio. È stato mentre mi raccontava della separazione recente della sua ex compagna di banco al liceo, che era stata anche testimone al nostro matrimonio, che s’è interrotta di colpo e poi, dopo un breve silenzio, ha annunciato «Devo dirti una cosa.», con un tono così compunto, diverso da quello leggero avuto fino a quel momento, che per un attimo nella mia mente si sono rincorse le ipotesi peggiori: malattie, disgrazie in agguato, rivelazioni di segreti nascosti per anni e, certo, anche la presenza di un’altra persona nella sua vita. Dopo un tempo brevissimo, ma che a me è sembrato più lungo dell’eternità, ha aggiunto, quasi in un soffio: «Aspettiamo un bambino.», un’altra pausa, con gli occhi sempre puntati sulla strada, mentre io fissavo lei e non riuscivo a dire nulla per lo stupore che, in una carambola di emozioni, erompeva in un’implosione di gioia incontenibile, che facevo uno sforzo enorme a controllare, visto che eravamo in auto, e volevo evitare un incidente. «O una bambina. Lo sapremo tra qualche mese.». Mentre era in visita dai suoi genitori, aveva avuto un presentimento e aveva fatto il test di gravidanza, che era risultato positivo. Quindi si era fatta anche visitare dal ginecologo da cui andava quando abitava ancora lì, e ne aveva avuto la conferma. I nostri piani erano diversi, avevamo deciso di aspettare ancora un po’ prima di avere figli, ma in quel momento la sensazione che il caso, o il destino, avessero deciso per noi mi è sembrato un gran colpo di genio, un dono inaspettato e proprio per quello straordinario. Lei continuava a guidare, potevo solo farle una carezza sui capelli, mentre i nostri sorrisi felici si riflettevano sul parabrezza che i movimenti regolari del tergicristallo mantenevano terso, cancellando le poche gocce della pioggia lieve ma persistente.

A casa di Guido e Miriam il racconto del viaggio appena fatto, con tutti i particolari legati anche al suo passato, è continuato e, al momento del dolce, prima che sollevassimo i bicchieri per brindare alla nostra amicizia, Irene ha assunto di colpo un’espressione enigmatica e, lanciandomi uno sguardo complice, si è rivolta ai nostri amici e, «Aspettate, c’è una cosa che devo dirvi.», ha esordito. «Siete i nostri amici più cari, ed è giusto che condividiate con noi la bella novità.» «Sei incinta!», ha esclamato Miriam senza darle il tempo di finire. Non c’è stato bisogno di rispondere, le nostre facce e gli occhi dicevano già tutto. E poi è stato un tourbillon di baci, abbracci, congratulazioni, auguri, brindisi.

Alla fine della serata, al momento di tornare a casa, e nonostante le mie proteste, Irene si è rimessa alla guida della macchina, convinta che io avessi esagerato con il prosecco per festeggiare la vita annunciata. Non aveva mai smesso di piovere, le gocce sottili calavano sulla città come un velo, con l’insistenza uggiosa a cui si è abituati da queste parti, gocce minute e implacabili come il pulviscolo che si accumula nostro malgrado sulle cose. Ma noi non ne eravamo affatto infastiditi, niente avrebbe potuto turbare il nostro stato di grazia. Quando Irene aveva acceso il motore, era ripartita la musica di Tartini, un concerto per violino che lei ascoltava spesso, era tra i suoi preferiti. La musica riempiva l’abitacolo e noi ci godevamo quel momento in silenzio, con i fari delle poche auto, che andavano nell’altra direzione, a illuminare noi e la strada, più buia del solito quella sera. Poi i ricordi si trasformano in una nebbia fitta, squarciata a tratti da immagini indistinte, come capita a volte nei brutti sogni. C’è la moto, che ha invaso all’improvviso la nostra corsia all’imbocco della curva, e l’assoluta impossibilità di evitarla. Non ricordo se abbiamo gridato. Di quella manciata di secondi è rimasto solo il bagliore improvviso e accecante di un fanale che puntava sparato contro la nostra auto. Dopo mi hanno detto che il motociclista ha perso la vita nell’impatto, io e Irene siamo stati portati in ospedale in condizioni gravissime, in seguito alla telefonata di un altro automobilista che aveva assistito all’incidente. Irene è morta il giorno dopo. Io sono stato tenuto in coma farmacologico per diverso tempo e quando ne sono uscito mi hanno comunicato che avevo perso l’uso delle gambe; e mia moglie.

A Irene sarebbe piaciuta davvero tanto tutta questa neve: dalla finestra, avvolta nel suo scialle strampalato e festoso, si sarebbe riempiti gli occhi di tutta la luce azzurrina riflessa dal cielo sereno su questo drappo intessuto di cristalli purissimi e impalpabili, appena sfiorato dal sole. E anch’io sto bene qui, dietro i vetri; con lei.

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Sesto contest

titolo: La schiuma dei giorni
scadenza:  31 agosto 2016
 
Il titolo, al solito, è uno spunto. l'interpretazione è libera.
 
I racconti devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it
La lunghezza massima è di duemila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office.
Il titolo deve essere composto dal vostro nome e da "la schiuma dei giorni".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Scadenza: trentuno agosto 2016.
Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito. Sarà più semplice comunicare.
 
Cosa si vince?
 
I due o più vincitori (se i racconti inviati saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it
 
A dicembre 2016 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.
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