Marilena Fonti – Ogni cosa è illuminata (Luci)

Scritto da

Dalla finestra del mio studio intravedo, oltre il giardino, il bosco di querce che si estende dietro la casa, fino alla zona industriale, e nasconde alla vista gli antiestetici capannoni. Quando io e Irene abbiamo comprato la villetta, prima di sposarci, la vicinanza di quelle costruzioni, anonime e un po’ squallide, è stato un problema per lei. Ma io mi sono innamorato subito di questo posto: in origine era un vecchio casale, ristrutturato diversi anni fa, quando i campi hanno iniziato a essere cancellati dall’espansione edilizia e dalle lottizzazioni. Prima di venire ad abitarci abbiamo fatto un ulteriore restauro, adattandola ai nostri gusti e alle nostre esigenze: nel tempo tra noi e questi muri si è stabilita una sorta di simbiosi, uno scambio di energie positive a cui adesso è difficile sottrarsi. Qui si ha la sensazione di essere in campagna, isolati dal resto del mondo, seppure non lontani dal centro: per arrivarci basta percorrere la nostra piccola strada a senso unico fino all’incrocio con la via principale del quartiere, girare a destra e dopo circa una cinquantina metri immettersi nella strada provinciale, che cinge la città come un anello. Quando non si è pressati dal tempo è piacevole anche fare il tragitto a piedi, o in bicicletta. Il giardino circonda la casa: un muretto, sovrastato da una rete, e un cancello ne separano la parte anteriore dalla strada; il retro, che ne è anche la parte più estesa, si allarga per parecchi metri quadrati, quasi trecento e, se non fosse delimitato dalla recinzione, si confonderebbe con uno dei pochi prati rimasti in questa prima periferia, non ancora attaccato dalla cementificazione scriteriata degli ultimi anni. Appena siamo arrivati qua Irene si è anche impegnata nel trasformare un piccolo rettangolo del terreno in un orto minimalista, più per il gusto di mettersi alla prova che per altro. La sua soddisfazione nel portare in tavola i prodotti di quella striscia di terra, che si era ritagliata tra i cespugli di bosso e di forsizia, è sempre stata motivo d’ilarità: pomodori un po’ rachitici e insalata spesso già spigata, ma fonte di grande orgoglio per lei, nata e cresciuta in una grande città del nord, dove l’unico verde che vedeva era quello del parco dove andava a correre in primavera e in estate.

Passo molto tempo in casa, soprattutto in questa stanza, da quando l’incidente mi ha costretto a limitare gli impegni. Del resto, è sempre stato l’ambiente che ho amato di più. Io e Irene abbiamo deciso di farne il nostro studio ancora prima di trasferirci qui in modo definitivo, forse già dalla prima volta che abbiamo visto la casa: molto grande, con i soffitti alti, il parquet di un bel rovere dai toni caldi, di fronte alle due finestre un camino imponente, con la cornice in legno intagliato, del tipo preferito da mia moglie, che è stata sempre condizionata dalla sua passione per le atmosfere inglesi nella scelta dell’arredamento. Ha sempre detto: «Per me essere qui è come essere dentro un romanzo di Jane Austen.». È rimasta quasi delusa quando, durante il nostro primo viaggio in Inghilterra insieme, abbiamo visitato delle dimore storiche e notato quanto fossero bassi i soffitti di alcune vecchie abitazioni. Le è piaciuto da impazzire arredare la nostra tana, e qui tutto parla di lei. Sullo schienale della poltrona, accanto al focolare, è posato il suo scialle, quello tutto colorato, tessuto dalla sua amica Paola che, tra un impegno e l’altro della professione di avvocato, si ritaglia degli intervalli per eseguire lavori al telaio, che poi regala ad amiche e parenti. Il miscuglio di sfumature è del tutto bizzarro, fuori da ogni logica: il giallo alternato al fucsia, e poi turchese, arancione, verde mela, rosso. Sembra l’opera di un messicano un po’ fuori di testa: sul nero della pelle della poltrona è come un’esplosione di allegria in una giornata tetra, fuochi d’artificio che irrompono nel buio della notte.

Il bagliore generoso e avvolgente della fiamma nel camino mi fa pensare ai pomeriggi passati qua dentro: lei immersa nella lettura dei suoi adorati libri e io che lavoro a qualche progetto al tecnigrafo: ho sempre avuto l’abitudine di portarmi del lavoro a casa. Quando fuori c’è la neve, come adesso, per esempio. Ma non solo: qui mi concentro di più, i miei progetti migliori sono usciti da queste quattro pareti. Non abbiamo mai messo le tende alle finestre, tanto lì dietro, oltre il recinto, ci sono solo il prato e il bosco. Il paesaggio, a cui le finestre fanno da cornice, oggi è davvero incantevole: sembra una cartolina di Natale, anche se il Natale, fin troppo piovoso quest’anno, è ormai un lontano ricordo. Si cominciava già a pensare alla primavera quando c’è stata questa recrudescenza dell’inverno. Era da tanto tempo che non nevicava così e io avevo quasi dimenticato quanto fosse piacevole starsene al caldo della legna che brucia, circondati dal silenzio protettivo del soffice strato candido teso a ricoprire tutto e quasi messo lì, come una coperta sotto cui rannicchiarsi, dalla sollecitudine premurosa di un vecchio amico. Il rumore della strada arriva attutito fin qui: il fruscio soffocato delle ruote che scivolano sulla neve e la cacofonia metallica delle catene. Ma il silenzio è più forte, avvolgente, rassicurante. Suggestivo.

«Luca, ti va un po’ di musica?», la domanda immancabile di Irene in momenti come questo. Le è sempre piaciuto ascoltare brani di musica in casa, ancora di più se insieme a me. Le note di melodie barocche, le sue preferite, sono risuonate talmente spesso qui dentro che, a volte, sembrano prendere vita da sole e scaturire dalle pareti che le hanno assorbite nel tempo.

La sera in cui siamo andati a cena da Guido e Miriam, Irene è uscita di casa prima di me e, quando l’ho raggiunta, era già al volante della sua macchina. Stava ascoltando un concerto di Tartini, il cd era di sicuro già nel lettore ed era partito non appena lei aveva acceso il motore.

«La tua è in garage, inutile tirarla fuori adesso.», mi ha detto. «Dai, salta su che siamo già in ritardo! Sei sempre il solito, tu!».

Era euforica. O nervosa: in fondo avrebbe preferito starsene nella nostra bella casa, “la casa di Nora felice”, è così che l’ha chiamata. Aveva anche proposto, con uno di quei guizzi di incantevole follia per cui m’ero innamorato di lei, di mettere una targhetta con quel nome accanto al cancello. Ero riuscito a dissuaderla, ma era stata dura. Fosse stato per lei, Ibsen avrebbe dovuto scegliere un’altra conclusione per il suo testo, perché l’intenzione di lasciare me e la nostra dimora amatissima non l’avrebbe mai neanche sfiorata, è quello che ha sempre detto ridendo, ma con gli occhi seri.

Quella sera pioveva, neanche poi tanto, una pioggia che durava da quasi una settimana ormai, tipica del mese di novembre in questa zona. Lei parlava in continuazione, aveva tante cose da raccontarmi perché il giorno prima era rientrata da una visita alla sua famiglia: aveva rivisto anche delle vecchie compagne di scuola di cui io mi ricordavo appena, per averle incontrate al nostro matrimonio. È stato mentre mi raccontava della separazione recente della sua ex compagna di banco al liceo, che era stata anche testimone al nostro matrimonio, che s’è interrotta di colpo e poi, dopo un breve silenzio, ha annunciato «Devo dirti una cosa.», con un tono così compunto, diverso da quello leggero avuto fino a quel momento, che per un attimo nella mia mente si sono rincorse le ipotesi peggiori: malattie, disgrazie in agguato, rivelazioni di segreti nascosti per anni e, certo, anche la presenza di un’altra persona nella sua vita. Dopo un tempo brevissimo, ma che a me è sembrato più lungo dell’eternità, ha aggiunto, quasi in un soffio: «Aspettiamo un bambino.», un’altra pausa, con gli occhi sempre puntati sulla strada, mentre io fissavo lei e non riuscivo a dire nulla per lo stupore che, in una carambola di emozioni, erompeva in un’implosione di gioia incontenibile, che facevo uno sforzo enorme a controllare, visto che eravamo in auto, e volevo evitare un incidente. «O una bambina. Lo sapremo tra qualche mese.». Mentre era in visita dai suoi genitori, aveva avuto un presentimento e aveva fatto il test di gravidanza, che era risultato positivo. Quindi si era fatta anche visitare dal ginecologo da cui andava quando abitava ancora lì, e ne aveva avuto la conferma. I nostri piani erano diversi, avevamo deciso di aspettare ancora un po’ prima di avere figli, ma in quel momento la sensazione che il caso, o il destino, avessero deciso per noi mi è sembrato un gran colpo di genio, un dono inaspettato e proprio per quello straordinario. Lei continuava a guidare, potevo solo farle una carezza sui capelli, mentre i nostri sorrisi felici si riflettevano sul parabrezza che i movimenti regolari del tergicristallo mantenevano terso, cancellando le poche gocce della pioggia lieve ma persistente.

A casa di Guido e Miriam il racconto del viaggio appena fatto, con tutti i particolari legati anche al suo passato, è continuato e, al momento del dolce, prima che sollevassimo i bicchieri per brindare alla nostra amicizia, Irene ha assunto di colpo un’espressione enigmatica e, lanciandomi uno sguardo complice, si è rivolta ai nostri amici e, «Aspettate, c’è una cosa che devo dirvi.», ha esordito. «Siete i nostri amici più cari, ed è giusto che condividiate con noi la bella novità.» «Sei incinta!», ha esclamato Miriam senza darle il tempo di finire. Non c’è stato bisogno di rispondere, le nostre facce e gli occhi dicevano già tutto. E poi è stato un tourbillon di baci, abbracci, congratulazioni, auguri, brindisi.

Alla fine della serata, al momento di tornare a casa, e nonostante le mie proteste, Irene si è rimessa alla guida della macchina, convinta che io avessi esagerato con il prosecco per festeggiare la vita annunciata. Non aveva mai smesso di piovere, le gocce sottili calavano sulla città come un velo, con l’insistenza uggiosa a cui si è abituati da queste parti, gocce minute e implacabili come il pulviscolo che si accumula nostro malgrado sulle cose. Ma noi non ne eravamo affatto infastiditi, niente avrebbe potuto turbare il nostro stato di grazia. Quando Irene aveva acceso il motore, era ripartita la musica di Tartini, un concerto per violino che lei ascoltava spesso, era tra i suoi preferiti. La musica riempiva l’abitacolo e noi ci godevamo quel momento in silenzio, con i fari delle poche auto, che andavano nell’altra direzione, a illuminare noi e la strada, più buia del solito quella sera. Poi i ricordi si trasformano in una nebbia fitta, squarciata a tratti da immagini indistinte, come capita a volte nei brutti sogni. C’è la moto, che ha invaso all’improvviso la nostra corsia all’imbocco della curva, e l’assoluta impossibilità di evitarla. Non ricordo se abbiamo gridato. Di quella manciata di secondi è rimasto solo il bagliore improvviso e accecante di un fanale che puntava sparato contro la nostra auto. Dopo mi hanno detto che il motociclista ha perso la vita nell’impatto, io e Irene siamo stati portati in ospedale in condizioni gravissime, in seguito alla telefonata di un altro automobilista che aveva assistito all’incidente. Irene è morta il giorno dopo. Io sono stato tenuto in coma farmacologico per diverso tempo e quando ne sono uscito mi hanno comunicato che avevo perso l’uso delle gambe; e mia moglie.

A Irene sarebbe piaciuta davvero tanto tutta questa neve: dalla finestra, avvolta nel suo scialle strampalato e festoso, si sarebbe riempiti gli occhi di tutta la luce azzurrina riflessa dal cielo sereno su questo drappo intessuto di cristalli purissimi e impalpabili, appena sfiorato dal sole. E anch’io sto bene qui, dietro i vetri; con lei.