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Non potrò mai dimenticare quella notte di maggio del 1945.

Eravamo seduti sulla collina, su una distesa di fieno sottile. Ci guardavamo, riconoscendoci, ritrovandoci.

Intorno al fuoco il paese intero aspettava che il gruppo di musicisti improvvisato iniziasse a infondere nella notte estiva le tipiche melodie di una conviviale festa agreste.

I bambini saltavano nei mucchi di fieno, ridendo di gioia. Da troppo tempo quel suono era rimasto muto.

Eravamo tutti lì. Aspettavamo la musica.

Con le ferite ancora incrostate, i volti scavati, le mani tremanti aspettavamo la musica.

Le lacrime silenziose scendevano e ci bruciavano la pelle sotto una volta celeste rinata, ricucita come i nostri cuori smarriti e ritrovati.

A ogni stella fissa corrispondeva una lucciola intermittente nell’oscurità, una minuscola e rapida scintilla accesa e subito spenta. Poi accesa, ancora per un attimo.

Eravamo tutti lì, i vivi e le anime dei morti, uniti come non mai.

Eravamo tutti lì, finalmente liberi dalla guerra.

Ogni cosa, in quella notte di stelle testimoni, era illuminata.

Avevo diciannove anni.

Fino a pochi giorni prima avevo rischiato tutto per i miei ideali di libertà e democrazia e indossato i pantaloni come manifestazione di aperta ribellione.

Ero andata volutamente contro ai miei genitori, scappando di casa per seguire sulle montagne l’uomo di cui ero innamorata. Pietro. Era un partigiano.

Ci nascondemmo per mesi in una chiesa sconsacrata adagiata in una radura nel fitto di un bosco di castagni e faggi. Quel luogo era diventato il nostro avamposto di resistenza.

Eravamo un gruppo di quindici ragazzi e ragazze: il più giovane di noi, Lucio, aveva diciassette anni e due occhi grandi pieni di insonne attesa di una pace che tardava ad arrivare; il più anziano, invece, era proprio lui, Pietro: spirito libero, occhi voraci di vita e libertà che di anni ne aveva ventisette. Gli ardeva nell’animo la scintilla di una passione innata che mai si era affievolita.

‒ Ci sono cose peggiori della morte, ragazzi. Presto saremo liberi, lo sento.

Ci disse una sera con le lacrime agli occhi per cercare di riaccendere i nostri cuori anestetizzati dagli spaventi, dalle atrocità viste e sentite nell’ ultimo scontro a fuoco.

Poche ore prima mi era morto tra le braccia Ludovico, il nostro gigante buono, ferito da una scheggia di ferro grossa quanto la mia mano. Nonostante i miei sforzi nel rassicurarlo, lui aveva capito che non ce l’avrebbe fatta ed era in preda a spasmi che lo scuotevano tutto.

L’emorragia non si arrestava e noi non potevamo allontanarci dal nostro rifugio per cercare aiuto. Loro erano ancora là fuori, pronti a sparare.

Ero terrorizzata.

Con la mano destra premuta sul suo petto ricordo di aver chiuso gli occhi. Giurai a me stessa che se fossi sopravvissuta a tanta violenza avrei dedicato la mia vita a salvare la gente.

Arrivò la fine per Ludovico: nei suoi occhi morti un guizzo scintillò, come se non volesse arrendersi, ma provare a tenere testa a Colei che lo stava portando via nell’estremo e fatale attimo.

La piccola orchestra era pronta a iniziare.

Dopo mesi e mesi di bisbigli sottovoce tra boati di esplosioni e scariche di proiettili, aspettavamo la musica. Ne avevamo bisogno per ritemprarci, per realizzare che non si trattava di un sogno.

Eravamo tutti lì, finalmente liberi dalla guerra.

C’era una solenne attesa che nessuno osava interrompere.

Ogni cosa, in quella notte di lucciole tremanti, era illuminata.

Ero una staffetta all’epoca: facevo la spola tra il nostro avamposto e il paese con nuove informazioni e munizioni.

Uccisi anch’io. Due volte.

La prima per salvare Anna, non solo un’amica e una compagna nella lotta, ma soprattutto la sorella più grande che non avevo mai avuto.

Un pomeriggio, nell’ora del tramonto, un soldato tedesco l’aveva sorpresa nel bosco, di ritorno dal paese con alcune provviste di cibo e di proiettili.

L’aveva avvicinata senza che lei se ne accorgesse. Le era sopraggiunto alle spalle e sotto la minaccia di una pistola l’aveva trascinata a terra e stuprata senza pietà.

Insospettita dal suo tardare, mi incamminai sul sentiero per andarle incontro. Arrivai troppo tardi perché potessi impedire la violenza, ma non abbastanza da permettere a quel bastardo di spararle in fronte e, poi, scappare via impunito.

Fui più veloce di lui.

Non ebbe nemmeno il tempo di rialzarsi e tirarsi su i pantaloni logori.

Un solo colpo sparato dritto in mezzo alle scapole lo fece accasciare in una pozza di sangue scura, sempre più ampia. A lungo ne restò la traccia sul terreno.

La mano iniziò a tremarmi. Lasciai cadere la pistola in un impeto di ribrezzo. Guardai Anna.

Era immobile, sdraiata nella stessa posizione in cui era stata violata, con lo sguardo fisso tra le chiome dei castagni. Non piangeva, non urlava e questo mi spaventò ancora di più.

Le mani fredde posate su un grembo profanato, ridotto a uno squallido porcile.

Mi accovacciai accanto a lei, prendendole il viso tra le mani e carezzandole i lunghi capelli corvini. Li ripulii con cura dalle foglie e dalla terra di cui si erano sporcati, come se bastasse a cancellare tutto.

Anna riemerse dal silenzio per pronunciare con voce assente tre parole:

‒ Era meglio morire.

La mia cara Anna, la mia guerriera senza paura, pronunciò solo queste tre parole. Furono sufficienti per lacerarmi dentro come schegge aguzze.

Non c’era più alcuna luce nei suoi grandi occhi azzurri.

Le avevo salvato la vita, eppure era più morta lei del nemico che avevo appena ammazzato.

Il ragazzo con il violino disegnò nell’aria movimenti precisi e sinuosi, stringendo l’archetto con delicata fermezza.

Le note si espansero tutto intorno, fluide, feconde. Si innalzarono sopra di noi, come a voler toccare gli astri con melodiosa disinvoltura e si posarono tra l’erba fluttuando leggermente, sulla paglia sottile, ai nostri piedi, frementi.

Ascoltavo, perdendomi tra le silenziose lacrime che mi si scioglievano sulle guance e sul collo. Solchi salati sulla pelle.

Gocce di luce nuova.

C’erano ancora tracce di neve sul sentiero quando per la seconda volta le mie mani rubarono la vita a un altro essere umano.

Era un soldato tedesco, poco più che un ragazzino. Ancora oggi mi appare in sogno e il suo sguardo mi tormenta. Due occhi chiari e provati incastonati in un volto smunto, deperito dalla fame e dallo scempio di una guerra disumana.

Aveva tentato di rubare da uno dei nostri metati un sacco di castagne destinate alla macinatura. Era la nostra unica fonte di sostentamento in quelle settimane di fame atroce.

Ricordo che ero un tutt’uno con la fame: ero ridotta a un brandello di donna, un corpo aguzzo, scarno e sciupato, che vagava per il bosco in cerca di qualsiasi cosa potesse risultare anche solo lontanamente commestibile.

Dovevamo razionare tutto e bere continuamente l’acqua gelata del ruscello per riempirci lo stomaco con qualcosa.

Non appena vidi il nemico allontanarsi con il nostro sacco di castagne sulle spalle, la mia fame cieca e sorda fu più forte della sua.

Lo seguii per qualche decina di metri per averlo meglio sotto tiro.

Sentendo i miei passi, lui si voltò.

Sogno ancora quegli occhi chiari che mi fissano dal regno dei morti.

Gli intimai di lasciare il sacco se voleva avere salva la vita.

Non capiva. Mise mano alla sua pistola, ma lo anticipai.

Era soltanto un ragazzo che aveva fame e voleva sopravvivere, ma io vidi solo il nemico scappare con il nostro sacco di castagne. Quel cibo ci serviva.

Lo uccisi senza esitazioni.

Non sapevo ancora che avrei sentito per sempre le mani sporche di sangue.

Avevo fame, fame da morire.

Fame da uccidere.

Al violino si aggiunsero i flauti e i clarinetti. La piccola orchestra scaldava la sera odorosa di menta selvatica e felci umide.

Il buio sulla collina era rischiarato soltanto dalle lampade a olio appese fuori dalle finestre delle umili abitazioni del paese poco distante.

Luci e musica, dopo tanto, troppo tempo.

Stavo pensando a cosa ne sarebbe stato del futuro, cosa avrei fatto della mia vita quando la domanda improvvisa di Pietro mi fece scuotere.

‒ Sposiamoci, Marta. Voglio un figlio da te. Voglio una famiglia. Tutto.

Mi guardava come se non esistesse altro al mondo.

Avevamo passato mesi di paura e di coraggio insieme. Avevamo visto la morte in faccia più volte. Avevamo seppellito amici e parenti. Eravamo molto più vecchi della nostra età e quella grinzosità dell’animo trapelava anche dagli occhi.

Eppure avevamo ancora sogni semplici e normali, quelli di due persone innamorate: sposarsi, avere dei figli, una casa.

Era tutto così a portata di mano.

Una felicità da costruire insieme giorno per giorno.

Una vita libera, onesta e dignitosa da ricostruire dalle fondamenta.

Era tutto lì, a portata di mano, come la musica invisibile che danzava nell’aria frizzante. Come le lucciole scintillanti tra l’erba.

Era tutto semplice.

‒ Non posso.

Fu la mia risposta.

Lo amavo, l’ho sempre amato, ma rinunciai a lui. Piansi a lungo per quella scelta sofferta, ma, se potessi tornare indietro, la rifarei.

Mi negai qualsiasi possibilità di essere felice con lui perché sentivo che la mia vita doveva essere rivolta altrove. Non mi concessi nemmeno del tempo per pensarci su.

La mia scelta era cresciuta spontaneamente nel mio intimo e non avrei mai potuto ignorarla.

Avevo bisogno di redimermi attraverso il sacrificio.

Ebbi la vocazione proprio quella notte: ogni cosa era illuminata anche dentro di me.

Avevo appena compiuto vent’anni quando partii per l’Africa occidentale come missionaria insieme alle mie consorelle.

Dedicare ogni giorno della mia vita ad aiutare i più bisognosi è stata la scelta più giusta e nobile che potessi prendere.

Non è bastato a cancellare il sangue dalle mie mani, né a dimenticare, ma ogni volta che prendo tra le braccia uno dei miei piccoli orfani e lo sollevo in alto per farlo sorridere, sento che ogni cosa, fuori e dentro di me, è illuminata da quel sorriso.

Pubblicato in concorso

La casa era piena di oggetti ricevuti in dono dai genitori quando si era sposata.

Con la scusa di non spendere e che bisognava risparmiare, l’avevano riempita di cose delle zie, delle nonne, della mamma.

Lei in realtà voleva dimenticare il passato, troppo pesante per esserne fiera e contenta.

Litigi, insulti, rifiuti. Voleva dimenticare, anzi, non avrebbe mai voluto appartenere a quella famiglia e non voleva più nessuno di loro tra i piedi. Voleva ricominciare, sposarsi per chiudere un capitolo e aprirne un altro.

- Possiamo permetterci tutto quello che vogliamo, Cathy, mio padre pagherà ogni spesa.

- Tutto, tutto quello che serve?

- Quello che serve e anche quello che non serve.

- Stai scherzando, vero?

- Dico sul serio. Non hai ancora ben capito che gente siamo noi, eh?

Dopo una vita passata a contare e conservare anche gli spiccioli nei salvadanai, trovava il fatto di non doverlo più fare un progresso non da poco. Poi David le voleva molto bene.

Sì, quindi poteva permettersi di dimenticare un passato molto, molto faticoso.

E quei cimeli ricevuti in regalo davano quel tocco vintage che andava di moda, spezzavano lo stile troppo moderno che piaceva tanto a lui: per donare una piccola dose di personalità alla casa andavano bene.

Il tempo passava senza pensieri, aveva tutto quel che ogni giovane donna avrebbe desiderato. Le monete erano tenute sparse sui mobili, né contate, né conservate.

Una sera David disse: -Sai, Cathy, stasera andiamo a parlare con tuo padre, vieni?

- Certo, David, per quale motivo?

- Lo saprai quando saremo là.

Si preparò, fiduciosa ma perplessa. ‘Che strano, cosa dovrà mai chiedere David a mio padre?’, si disse.

Non avrebbe mai voluto rivederlo né avere bisogno di lui: era sempre stato burbero, scostante. Fuggiva dalla famiglia eppure restava un despota incontrastato. Era sicura di averlo reso felice sposandosi. Felice di essersi liberato della figlia. E anche lei lo era, di essersi liberata del padre.

Arrivati alla vecchia casa paterna, rividero il suocero dopo diverso tempo. Era invecchiato. Si accomodarono intorno al tavolo in cucina e David gli disse: - Ecco, le volevo chiedere se poteva darmi del denaro per un’auto nuova. Sa… in fondo noi abbiamo sostenuto le spese della casa e so che lei ha dei risparmi in banca per cui, be’… se non le dispiace, noi a causa del costo della ristrutturazione ci siamo indebitati, mentre voi… Be’, per contraccambiare un’auto a me ci verrebbe, no?

Cathy non credeva alle sue orecchie. Rimase ammutolita a lungo, non sapendo come reagire; avvertiva una lunga serie di brividi di sconcerto che non le permettevano di avere alcuna reazione. Le ci volle molto tempo per elaborare.

Tutta la sua famiglia, suo padre, lei stessa avevano lavorato sodo una vita intera per quei risparmi.

David aveva passato quegli stessi anni a scialacquare a piene mani perché diceva di avere denaro in abbondanza. Diceva che lo aveva suo padre.

Diceva. Non era così, allora. Non era chi aveva fatto credere di essere.

Cathy rimase in silenzio. La fiducia era diventata una cosa non scontata.

Si accarezzò il ventre. Ninna nanna, ninna o, questa bimba a chi a do? La darò alla sua mamma, che la tiene a far la nanna. Ricordò.

Giunta a casa, si diresse verso il cassettone: lo guardò con occhi nuovi. Era della nonna. Le sembrò di rivederlo nel punto esatto della stanza in cui lo teneva.

Ne aprì un cassetto ed estrasse la copertina che la zia le fece ai ferri quando nacque e che sua madre aveva conservato. Cominciò a passarvi dei nastri rosa intorno al bordo, facendo dei fiocchi agli angoli. E benedisse il luogo, le persone, la cultura, le esperienze dalle quali veniva.

Pubblicato in concorso

Genoveffa Settembrini aveva uno strano modo di risolvere i problemi.

Se l’acqua le arrivava alle caviglie, lei non chiudeva il rubinetto fino a quando non sentiva di annegare. Non agiva così solo per pigrizia, il fatto era che i problemi proprio non le interessavano da oltre cinquant’anni, praticamente da quando era nata.

Nel condominio di Via dei Gelsi 12 era la sola a non partecipare alle consuete riunioni del tè a casa di zia Valeria.

Quegli incontri avevano la solennità di un evento a palazzo e la zia, vedova e senza figli, confezionava per l’occasione degli inviti decorati.

La zia Nella, Mina la parrucchiera, Dorotea e la figlia Ludovica erano le ospiti fisse, poi c’ero io.

Io vivevo con le zie da quando avevo tre anni. Mangiavo a casa della zia Valeria e dormivo a casa della zia Nella. Per me non faceva molta differenza, loro abitavano sullo stesso pianerottolo e le porte d’ingresso erano sempre aperte.

Prima degli attesi avvenimenti di ciance e biscottini, andavano tutte al piano terra a farsi belle nel salone di Mina, che applicava il trenta per cento di sconto al gruppo delle fedelissime amiche.

I racconti del tè, così li definivo, iniziavano dalla parrucchiera e proseguivano a casa della zia.

Mentre loro ciarlavano, io giocavo sul terrazzo e sentivo gli ultimi aggiornamenti del mese. La più discussa era proprio Genoveffa, per questo motivo destava tanto la mia curiosità.

Talvolta, quando la sentivo uscire dalla porta, mi precipitavo al portone di ingresso per incontrarla, mentre arrivava con la sua busta piena di libri. Dove andasse con tutti volumi, le chiacchierone non lo sapevano. Qualcuno sosteneva che li donasse alla biblioteca comunale o all’orfanatrofio.

Benché le zie la considerassero burbera e poco loquace, con me si comportava in maniera cortese. Mi rivolgeva spesso la parola e, in un paio di occasioni, mi aveva regalato alcuni di quei testi: I misteri della giungla nera di Emilio Salgari e Il barone rampante di Italo Calvino.

Più di una volta era stata avvicinata dalle zie e invitata nel salone di Mina, ma senza alcun apprezzabile risultato. Con molta probabilità era convinta che il loro interesse nei suoi confronti fosse dovuto all’avidità di pettegolezzi e curiosità, di cui non erano mai sazie. Del resto come darle torto?

Un pomeriggio piovoso, inaspettatamente, Genoveffa apparve stravolta e allarmata sull’uscio del salone.

Atterrò in ciabatte, avvolta in un grembiule color lavanda e un asciugamano giallo paglia ancorato con una molletta, per fasciarle la testa.

Il silenzio piombò nella sala e Mina, sconcertata e allietata dalla visione, si affrettò ad accoglierla, avanzando verso di lei con uno slancio emozionale proporzionato a quella balzante novità.

«Mia cara, cosa ti è successo?» disse con le unghie laccate di rosso, un pennello da tinta in una mano e la sigaretta nell’altra.

Genoveffa, dietro le spesse lenti degli occhiali, puntellate da goccioline d’acqua, si accasciò sull’unica sedia libera e aprì sgomenta l’asciugamano.

«Pensavo ad un tinta nera con riflessi blu, ma il risultato è stato questo!» rispose.

Era blu ogni singolo capello, compresa la pelle intorno all’attaccatura della fronte e il cuoio capelluto che si intravedeva nella riga centrale!

A quella vista, decisi che avrei allontanato da me il più possibile l’idea di tingermi i capelli, un giorno.

«Cara, hai provato a fare la tinta da sola in casa? Lo vedi che c’è sempre bisogno di una parrucchiera? Anche per una semplice pettinata! Oh… ma aggiusteremo tutto, vedrai!».

Detto questo, posò il pennello sul carrello e si diresse verso la macchinetta del caffè.

«Leda, tesoro. Conduci Genoveffa al lavatoio» disse alla sua aiutante, inserendo la cialda nella macchina

«Intanto ci vuole un bel caffè! Genoveffa, hai bisogno di qualcosa che ti tiri su. Avrai preso un bello spavento. Quanto zucchero?» le chiese.

La verità era che Genoveffa si stava facendo bella per il signor Alvisi. Lo sapevo solo io, perché li avevo sentiti concordare il loro primo appuntamento, mentre li osservavo dal terrazzo. Da quel balcone ogni cosa mi pareva illuminata e batteva il sole per tutto il pomeriggio.

Quello di Genoveffa Settembrini e del signor Alvisi era un amore platonico e impacciato, che andava avanti da molti anni.

Alvisi viveva con la mamma al primo piano e, come Genoveffa, non si era mai sposato.

Era un uomo di mezza età, posato e scaramantico, e lavorava in banca.

Non percorreva mai il cortile in diagonale e accendeva la sigaretta sempre un attimo prima di aprire il cancelletto dell’uscita.

Al mattino si incamminava con la sua valigetta nera contenente poche cose: un piccolo ombrello, una penna stilografica, un pacco di sigarette e una banana.

Lo sapevo perché avevo aperto il suo curioso bagaglio, mentre lui, ignaro, consultava la cassetta della posta.

Fu in quell’occasione che ebbi l’idea.

Le zie raccontavano che Alvisi e Genoveffa erano talmente imbranati che mai sarebbero riusciti a dichiararsi il loro puro amore pluridecennale.

Risolsi io la questione con l’aiuto di Santina la fioraia: «D’accordo Annetta, mi hai convinta. Speriamo solo di non combinare qualche pasticcio!» mi disse. In fondo il mio intento era quello di fare qualcosa di buono per quei due.

Lei confezionò delle rose bianche per Genoveffa, con un biglietto che recava la scritta:

Quattro candide rose. Una simbolo della tua purezza, una simbolo della tua innocenza ed una simbolo della tua mitezza. La quarta rappresenta il mio segreto, da rivelare con delicatezza.

Con affetto, Tullio Alvisi”.

Santina, che viveva di fiori e poesia, appose questo messaggio in bella grafia all’interno di una busta chiusa e spillata. Io mi sentivo illuminata dalla viva fede nell’amore.

Il caso volle che, al momento della consegna, il signor Alvisi non fosse a lavoro a causa di un malessere.

Pare infatti che spesso venisse colto da emicrania imputabile ai luoghi chiusi e popolati, ragion per cui si vedeva costretto a rimanere presso la sua dimora e fare lunghe passeggiate nel cortile, per respirare un po’ d’aria.

Il marito di Santina venne col suo furgone a recapitare le rose, ma non trovò Genoveffa, perché era uscita a fare la spesa.

Incontrò, però, Alvisi in cortile. Visto che aveva altri giri da fare, gli affidò la consegna, chiedendo la gentilezza di farli pervenire alla signora Genoveffa.

All’inizio Alvisi, alquanto stizzito oltre che geloso, protestò non poco. Alla fine pensò che non poteva negare quel dolce favore alla cara Genoveffa. Lei, in fondo, avrebbe apprezzato quel gesto signorile e di pura cortesia, superiore al becero istinto di competizione.

E così, ignaro e cortese, si decise a consegnarle i fiori.

Appena Genoveffa rientrò, lui la vide dalla sua finestra. Indossava un abito a quadri e una paglietta antica. Anche lei lo vide, alzò lo sguardo e subito lo abbassò timidamente.

Alvisi si deodorò la bocca e si pettinò, dopodiché salì al terzo piano con le rose. Suonò.

Genoveffa gli aprì e per poco non svenne. Tullio ci tenne a precisare che si trattava di una sorpresa e che lui portava le rose di persona, al posto del fioraio. Poi, sudato e rosso per l’imbarazzo, abbozzò un timido sorriso con un mezzo inchino e andò via per le scale.

Il giorno dopo attesi di vedere qualche movimento. Quando Alvisi andò a lavoro, attraversando il cortile in lungo, mai in obliquo, lei scostò lievemente la tenda e lui accese la sigaretta poco prima di aprire il cancelletto, uno sguardo rivolto alla cara finestra e poi fuori dal cortile.

Per tutta la giornata Genoveffa non uscì neanche per andare a fare la spesa. Dopo due giorni la vidi in cortile. La paglietta non l’aveva, anche se era una bella giornata e la luce del sole le illuminava il volto. Incrociò Alvisi, per caso.

Sorrisero timidamente, si salutarono con un cenno della testa e proseguirono ognuno verso la propria direzione.

Improvvisamente Genoveffa si fermò: «Tullio...».

Lui si girò verso di lei con la lentezza di un bradipo, la spessa montatura sosteneva il suo sguardo chiuso.

«Mio…ecco... grazie per…per quello che hai fatto» disse esitante Genoveffa. Poi, bordeaux più di una rapa, attese qualche secondo per avere una risposta e dopo che lui ebbe fatto un delicato inchino, si incamminò senza sapere neanche dove.

Tullio si diresse verso il cancelletto ed era talmente imbambolato che attraversò il cortile leggermente in obliquo. L’inconsueto percorso gli procurò un tale panico che dovette rientrare a casa dal lavoro per malattia.

Orgoglioso per l’amabile gratitudine di Genoveffa, sperò vivamente che l’amante incognito si facesse nuovamente vivo con qualche dono inatteso, a tal punto da non trovarla in casa per il ritiro. In quel caso lo avrebbe ricevuto e portato lui.

Così, prese una pillola di magnesio, si deodorò la bocca e quel pomeriggio andò a suonare alla porta dell’amata.

Genoveffa aprì: «Oh…oh…» furono gli unici suoni che emise quando lo vide.

«Soave signora» esordì Alvisi. Lei chiuse gli occhi e già immaginò il finale da favola.

Lui proseguì: «Se dovesse trovarsi in difficoltà a ricevere fiori e doni, me lo dica, io non serbo rancore e non amo competizioni».

Poi con il classico delicato inchino: «Servo fedele, qui per servirla come l’altro giorno!».

Quanta eleganza e quanta nobiltà in quelle parole!

Con tutto il coraggio che aveva e al culmine dell’entusiasmo, Genoveffa rispose: «Ma caro…caro Tullio!». Poi, prendendogli le mani « No, certo che no! Mi fa piacere ciò che fai! Accetto! Oh si, accetto!».

Tullio Alvisi quasi non credeva a ciò che sentiva e al successo del suo nobile sacrificio.

Pensò che un cuore puro come quello di Genoveffa, sapeva riconoscere la nobiltà del suo spirito, che prima di allora mai nessuno aveva capito. E così, stavolta osò baciarle le mani che tanto impunemente avvinghiavano le sue.

A quel punto non sapevo più cosa architettare. Se procedere con quella pantomima e inventarmi altri regali o lasciare che i due amanti, già bene avviati, proseguissero per la loro strada.

Prima o poi, però, sarebbe saltata fuori la malfatta circostanza.

Per giorni non accadde nulla e infine sentii Genoveffa nel cortile invitare Tullio ad assaggiare un pezzo di torta a casa sua, in occasione di non sapevo bene cosa.

Così lei si tinse i capelli per l’avvenimento, che divennero blu.

Quando Mina salvò la testa di Genoveffa eravamo tutte lì. Smaniose di sapere perché. Eccetto la sottoscritta, si intende. Io un po’ me la ridevo, un po’ mi compiacevo.

L’indomani era sabato e Alvisi si presentò nel pomeriggio a casa di Genoveffa, con un mazzo di margherite e un papillon a righe. Lei raccolse i fiori e lo baciò tirandolo in casa per il papillon.

Non seppi bene cosa accadde quel pomeriggio, comunque Genoveffa non volle più vedere Tullio.

«Un uomo riesce sempre a far soffrire una donna! Anche quell’imbranato del signor Alvisi!» commentò risentita e indignata la zia Nella.

Genoveffa, sebbene da sempre molto restia alle confidenze, era venuta dalle zie in lacrime ad infamare Tullio.

Fiduciosa di una complicità tutta femminile, si era affidata alle amorevoli cure verbali delle due.

Io volevo sapere cosa fosse successo, ma la zia Valeria fu categorica: «Lascia stare Annetta, ci sarà tempo per conoscere di che pasta sono fatti gli uomini!» così dicendo la stanza risucchiò le tre donne ed io potei solo origliare.

Insomma: pare che durante le dolcezze del risveglio, Genoveffa avesse chiesto a Tullio di leggerle ad alta voce il tenero messaggio d’amore, che accompagnava le quattro rose bianche.

Lui aveva negato di averlo scritto e lei si era sentita ingannata, sedotta e abbandonata.

Lo aveva cacciato fuori di casa ancora in mutande.

Fu da allora, che la ritrosa inquilina del terzo piano, entrò nel gruppo delle fedelissime amiche.

L’amore tra Tullio e Genoveffa tornò all’impaccio platonico di sempre, ancora più impacciato.

Quanto a me, che nel mio piccolo avevo cercato di illuminare le vite di quei due maldestri, ottenni comunque l’effetto di allietare la vita della goffa Genoveffa, con le chiacchiere e i racconti del tè.

Nessuno tuttavia, fece mai luce sulla strampalata vicenda.

Pubblicato in concorso