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A_ Ciao John, come stai? Intanto, grazie per concederci un po’ del tuo tempo che, grazie al cielo, in questo momento storico pare sia dilatato, dandoci la possibilità di fare tutto quello che lasciavamo da parte. Anche negli Stati Uniti state attuando la quarantena simile a quella in vigore in Italia?
J_ Ciao, Alessandra. Qui negli Stati Uniti la rigidità della quarantena varia da stato a stato e, in certi casi, persino di città in città. Qui a Des Moines, in Lowa, una città che sorge nel bel bezzo della campagna, il numero dei casi è relativamente basso. Sono state chiuse le scuole, i locali, i teatri e altro; insomma, quasi tutto, ma ci è ancora permesso uscire per una passeggiata a piedi o per un giro in bici. Stanno facendo vari lavori stradali e roba del genere. Naturalmente, New York – che proprio come l’Italia è in un certo senso aperta al mondo e a qualsiasi tipo di virus – è stato il luogo più duramente colpito. A NY ho parte della mia famiglia che si trova letteralmente confinata in casa, fatta eccezione per qualche commissione considerata essenziale, che è ancora concessa. A volte capita che un amico o un cugino posti su Facebook l’immagine fugace di un parco, ma sinceramente non so come riescano ad organizzare questo genere di fughe; a ogni modo, quel che sembra preoccupare maggiormente tutti è la ripercussione economica. Mio fratello ha la possibilità di lavorare da casa, ma il suo figlio maggiore, che è impiegato nel settore dello spettacolo, ha visto la sua busta paga volatilizzarsi. Ce ne sono tante, tantissime, di storie simili in ogni angolo di tutto il paese. Il Sud, la vecchia Dixie (n.d.t. soprannome che si riferisce agli stati e alle persone del sud degli U.S.A.) pare stia patendo incredibilmente la situazione, considerando le condizioni di maggiore povertà, scarsa istruzione e mancanza di servizi.
A_ In questa singolare circostanza, come trascorri le tue giornate? Nell’ambito delle varie discipline artistiche, ho avuto modo di constatare come molti scrittori, poeti, musicisti, pittori o altro, stiano vivendo un inceppamento del processo creativo. Capita anche a te la stessa cosa, o stai approfittando del maggior tempo che abbiamo a disposizione per scrivere? Pensi che questo drammatico momento ci stia donando una maggiore o minore lucidità di osservazione?
J_ Ci sarà anche qualche eccezione, ma la maggior parte degli scrittori che mi viene in mente, in un modo o nell’altro lavora da casa. Alcuni di noi hanno l’esigenza di rimanere incollati alla scrivania e sintonizzarsi sulle voci interiori che ci frullano nella testa. Proprio questa settimana, nemmeno a farlo apposta, avevo una scadenza da parte di una rivista di Brooklyn: io e l’editore ci abbiamo lavorato via mail, come al solito. Per quanto riguarda invece il mio processo creativo, sì, sono perennemente distratto dalle notizie: chi non lo sarebbe? Ma ci sono anche le giornate buone. Di sicuro non sono un Boccaccio, ma direi che – in generale – sto riuscendo a cogliere, nonostante questa peste, un impulso alla narrazione. Parlando di incontri alternativi, per esempio, ho partecipato a un paio di letture di gruppo su Zoom e persino a una fantastica tavola rotonda internazionale su Elena Ferrante, in diretta da New York. Durante questo evento mi sono fatto una bella chiacchierata con un altro scrittore proprio in italiano. Devo ammettere che sento la mancanza di quel “dare e ricevere”, del rapporto reciproco: per essere uno scrittore, sono molto socievole e non me la posso ancora prendere che un gran numero di eventi sia stato cancellato. Uno dei miei sarebbe dovuto avvenire proprio a New York, e Dio solo sa a quando sarà posticipato, sempre che il locale non si trovi costretto a chiudere i battenti. Le risorse economiche stanno esaurendo un po’ per tutti, inclusi i posti in cui mi sono esibito come la City Lights di San Francisco o il KGB di New York.
A_ Stavamo parlando di processo creativo: come scrittore, di cosa hai bisogno (se di qualcosa hai bisogno) per riuscire a scrivere? Agio, tranquillità, serenità, inquietudine? E, infine, la scrittura in sé (intesa come atto mentale e fisico) la vivi come qualcosa di liberatorio e benevolo o piuttosto come una procedura faticosa e dolorosa? La percepisci, insomma, come un incontro o come uno scontro con il John Domini scrittore?
J_ È una bella domanda, suggerisce una riflessione profonda e, ahimè, nessuna risposta certa! Immagino che molti scrittori percepiscano l’ispirazione talvolta come un’amante provocante e talvolta come una micidiale febbre. Personalmente, so quello che mi serve per tenere allenato il muscolo della creatività in modo regolare. Se non lo utilizzo per troppi giorni, ne soffro la mancanza, si atrofizza. Anche quando sono venuto in Italia per promuovere Movieola!, tra una presentazione e l’altra e in mezzo agli spostamenti in treno, ho cercato di infilare un paio di momenti da dedicare al mio diario e al computer. Per quanto riguarda, invece, il tipo di vita di cui ho bisogno per scrivere, temo di dover ripiegare sulla risposta più ovvia e ammettere che si tratti di tranquillità e solitudine. Chiaro, ognuno ha bisogno di una certa dose di sofferenza e colpi duri per fare della buona arte - ogni canzone è, in fondo, un blues - ma mi viene in mente la fredda citazione di Hemingway, che diceva: da una piccola ferita può nascere una buona storia, ma se la ferita è profonda, non è un bene né per uno scrittore né per nessun altro.
A_ A proposito di case, di reclusioni imposte e più o meno apprezzate da chi le vive, mi sono rimaste impresse nella memoria delle immagini di casa tua – a Des Moines, in Iowa – semplicemente di scorci fugaci di quando ci sentivamo in videochiamata durante la traduzione di MOVIEOLA!: la tua libreria affollata, i dipinti che mi hai raccontato aver comprato a Napoli, la fotografia in bianco e nero di Bob Dylan e Allen Ginsberg, incorniciata e appesa al muro e, infine, la finestra che dava su uno di quei cortili sul retro tipico delle cittadine rurali americane (a quel tempo innevato). Vorrei che raccontassi ai nostri lettori cosa vedi, in questo istante, da quella finestra. È un’immagine che ti da conforto o vorresti – magari – in un momento come questo poter vedere altro e trovarti altrove?
J_ Lo dico dal profondo del cuore: mi manca l’Italia. Ero stato invitato a parlare a un simposio a fine maggio a Lucca, quindi avevo programmato di trascorrere una settimana a Napoli. Ora è saltato tutto, che peccato. Grazie a Whatsapp, però, sono riuscito a vedere i miei amici e familiari di Napoli e a chiacchierarci un po’. Un mio cugino è medico, e qualche volta l’ho trovato davvero esausto, ma per lo meno ci fornisce notizie dalla prima linea e, a quanto pare, non riuscirò a venire in Italia per niente quest’anno. Insomma, è chiaro che mi piaccia guardare fuori dalla finestra del mio ufficio che dà sul cortile: è primavera, i fiori stanno sbocciando e dal terreno spuntano i grossi e verdi getti delle radici di rabarbaro. Ma, in verità, da qui mi piacerebbe ammirare il Vesuvio e il Golfo.
A_ Torniamo alla fotografia che ritrae Michael McClure, Bob Dylan e Allen Ginsberg; immagino che tu l’abbia appesa perché, in un certo senso – simbolicamente – racconti due dei tuoi grandi interessi e punti saldi della tua cultura: quella musicale e quella letteraria. Quali sono i tuoi maggiori riferimenti e cosa hanno apportato alla tua figura di artista e scrittore?
J_ Ogni forma d’arte che ho in casa è una sorta di fonte di sostegno e di gioia. E, questa in particolare, di Dylan, Ginsberg e McClure dietro la City Lights Bookstore – guarda caso! – è una foto speciale. È un regalo che mi fece mia moglie prima di essere mia moglie, Lettie Prell: una scrittrice di fantascienza ben pubblicata, tra l'altro. Il che da un significato ancora più importante a questa fotografia. Ho assistito a performance indimenticabili sia di Ginsberg che di Dylan. Certamente sono figure che hanno contribuito a plasmare la mia idea di artista nel mondo. Quello che mi arriva, tuttavia, è qualcosa di mio, è idiosincratico. A me sembrano sempre personaggi leggeri, pieni di sorprese, ma un altro scrittore potrebbe percepirli come qualcosa di solido e confortante. Penso che sia ricorrente ritrovare queste differenze di percezione, quando gli artisti parlano dei loro personaggi di riferimento. Si ha in mente una figura, una fantasia, anche mitica. Quando dico che Italo Calvino mi ha aiutato a formarmi, mi riferisco solo a una fetta di tutto l’insieme che riguarda Calvino: il modo in cui ha trattato il racconto come un parco giochi, pur rimanendo un fuoriclasse per gli scrittori che gli stavano a cuore.
A_ Vorrei ora passare a un altro argomento, un'altra dimensione culturale che non può essere estranea a chiunque sia venuto al mondo, come noi, nella seconda metà del ventesimo secolo: il cinema. E, parlando di cinema, ne vorrei approfittare per tirare in ballo il tuo Movieola!, la raccolta di racconti attraverso la quale noi e i nostri lettori ti abbiamo conosciuto. Come è nata l’idea di questo libro e per quale motivo hai deciso di mettere il cinema (e l’ambiente di Hollywood) al centro della narrazione?
J_ Prima di tutto, grazie infinite a Jona Editore per l'ottimo lavoro svolto con la pubblicazione italiana di Movieola!: il libro ha un aspetto meraviglioso, e so anche le attenzioni che hai dedicato alla traduzione. Grazie di cuore. Detto questo, queste storie mi sembrano una sorta di omaggio agli eroi defunti. Voglio dire che le immagini hollywoodiane con cui siamo cresciuti sono ormai sepolte e scomposte nei video di YouTube. Non c’era bisogno del COVID-19 per impedire alla gente di riunirsi nei vecchi templi del cinema, le sale che un tempo erano il fulcro di ogni città. Erano già stati convertiti a negozi e locali, e l'arte che presentavano si è trasformata in qualcosa di grottesco, la cosiddetta “Industrial Hollywood”, fatta di spettacoli interamente dedicati al profitto e sempre incredibilmente prevedibili e scontati. Non sono l'unico a notarlo, naturalmente; Steve Erickson ha ritratto questo tracollo nel suo grande romanzo Zeroville. Lo ha fatto, però, attraverso il genere drammatico; io, invece, non appena ho iniziato a comporre il primo dei racconti - "Making the Trailer" - ho capito di avere uno sguardo più comico.
A_ Sempre in riferimento a Movieola!, puoi dirci se c’è un motivo particolare per cui hai optato per il racconto, come forma narrativa, piuttosto che per il romanzo? È stata una decisione a priori o gli hai dato questa struttura durante la stesura? Te lo domando, perché in un certo senso, i racconti non sono tracce a sé stanti: l’argomento principale è unico, anche se poi si ramifica e articola in diverse sottoclassi.
J_ In realtà, ora vedo il libro più come un'eruzione dell'identità. Quando ho messo insieme le prime storie, stavo concentrando le energie sul mio "grande progetto", una trilogia di romanzi ambientata a Napoli. Quei romanzi sono ora in stampa, e sono orgoglioso del lavoro svolto, ma in fin dei conti seguono semplicemente i Dieci Comandamenti della letteratura del mistero messi a punto da Raymond Chandler: sono realistici, fondamentalmente; fanno attenzione alla fonte del guadagno e all’organizzazione dei tempi e del luogo. Queste preoccupazioni sono legittime, fanno parte del lavoro, certo, ma a un certo punto il Domini dionisiaco non ce la faceva più. Il ragazzo ribelle dentro di sé è esploso in qualcosa di ultraterreno, in queste storie in cui il denaro non è un oggetto e qualsiasi personaggio può essere di fantasia. Chiunque, inciampando nel paesaggio devastato del tardo capitalismo malato, può divenire uno zombie. Una deviazione del genere va contro la buona abitudine romanzesca, non c'è dubbio. D'altra parte, questa deviazione forse ha contribuito a dare una boccata d’ossigeno anche al mio progetto più lungo, e a evitare che i suoi passaggi finali sembrassero forzati e troppo poco spontanei.
A_ Vorrei approfittare per dire a te, e a tutti i lettori, che tradurre Movieola! è stata per me un’avventura surreale, come penso lo sia per chi lo abbia già letto o lo farà a breve. È stata impresa ardua e faticosa, destabilizzante, da un lato per la tua unicità e ricchezza espressiva (sia a livello di vocabolario, di uso del linguaggio, sia a livello di riferimenti culturali e sociali al mondo di Hollywood e degli Stati Uniti tutti). Questi racconti sono molto vivaci, ironici, sfiorano al tempo stesso il surreale e l’iperrealismo, tanto da chiederci spesso durante la lettura se sia più giusto ridere a crepapelle o rattristarci. Questa doppia dimensione è forse, a mio parere, lo spirito stesso e il fine ultimo di questi racconti: durante la stesura (o prima, o dopo) ti sei trovato a chiederti se tutto quello di cui stavi parlando era in un certo senso troppo strano per essere vero o troppo vero per essere strano?
J_ Devo sottolineare che hai fatto un lavoro meraviglioso con la traduzione, e te ne sono molto grato. Complimenti, davvero! A parte questo, ribadisco quanto ho già detto sopra riguardo all’ingresso nella zona dei morti viventi, dove anche i supereroi decidono di fare a pezzi i loro costumi e la lingua diventa una sfida fatta di scrittura sbalorditiva e di quell’uso fitto di acronimi tipico dei pezzi grossi di Hollywood. Anche qui, non ho potuto fare a meno di riconoscere la mia America sopra le righe, spinta dall'avidità di commettere sempre gli stessi errori. Almeno, come ci ha insegnato Karl Marx, quando si parla di storia, la seconda ripetizione è una farsa.
A_ Ti è capitato che attribuissero l’etichetta di “Postmoderno” a questo tuo prodotto letterario? Pensi abbia un senso, viste le caratteristiche di Movieola! parlare di racconti che hanno tanti aspetti tipici di questa corrente letteraria e non solo? Se è successo, lo ritieni una forzatura e una smania da parte della critica o pensi sia un risultato naturale, quindi una tappa obbligata per chi ha prodotto arte, cinema, letteratura o architettura nel mondo occidentale da circa trent’anni a questa parte?
J_ Non si può infatti negare che sia il libro MOVIEOLA! sia il suo scrittore John Domini siano "Postmoderni". Gioco in questa squadra, e ho scritto saggi su altri che indossano la stessa divisa, come W.G. Sebald. D'altra parte - sempre cercando di evitare qualsiasi sovrapposizione con quanto ho detto sopra - vorrei sottolineare che una caratteristica unica e distintiva del Postmode rno è proprio l'appropriarsi delle forme precedenti, prendendole e capovolgendole per creare qualcosa di nuovo. Ecco perché il rap originale, uscito dal devastato South Bronx, era incredibilmente postmoderno: qualcuno come Grandmaster Flash ha spezzato le vecchie melodie e ce le ha sbattute di fronte a tempo di beat, le ha rimesse insieme usando solo due giradischi e un microfono. Così, ha inventato una nuova hit.
A_ Adesso ti dico una cosa che penso ti riempirà di gioia: sappi, però, che questo complimento non è fine a sé stesso, ma utile a capire se questo parallelo sia motivato, e il perché lo sia: sempre traducendo la tua raccolta di racconti, non ho potuto fare a meno di ritrovarmi in una dimensione molto simile a quella in cui Italo Calvino ci ha trasportati con le sue Cosmicomiche, non solo per la tua scrittura ironica e intelligente (di cui ho già parlato prima) ma pure per l’espediente letterario utilizzato: un’ambientazione reale che nel tuo caso è il mondo di Hollywood, del cinema, con i suoi processi di produzione (in Calvino è l’universo con le sue fasi evolutive e le nozioni scientifiche) per i costruirci sopra delle storie immaginarie e paradossali, dunque in un processo che è in un certo senso opposto e speculare a quello della letteratura o del cinema di fantascienza, dove da un’ambientazione immaginaria e futura siamo portati a ragionare su quella presente e reale. Se questo parallelo tra MOVIEOLA! e Le Cosmicomiche non è azzardato, ma sensato, pensi sia attribuibile a qualche ragione?
J_ Giustissimo: niente mi lusinga di più del paragone con Calvino, e suppongo che ora dovrò andare a flagellarmi da solo per compensare. È Pasqua, dopotutto. Seriamente, però, Le Cosmicomiche di Calvino sono state uno dei testi che ha reso possibile Movieola!. Ce ne sono altri che potrei citare, come 60 Stories di Donald Barthelme, poco conosciuto in Italia ma che rivive, inconsapevolmente, nell’ironia e nell’inventiva tipicamente italiane. Anche Howl di Allen Ginsberg, magari. Ma il motivo per cui ho trovato il Calvino degli anni Sessanta così condivisibile, così stimolante, be’, rimarrà sempre un mistero. Penso che nessuna delle mie chiacchierate nel corso delle interviste come questa chiariranno l'enigma insito in ogni impulso a creare. Tra le intricate radici di Movieola!, o di qualsiasi libro di narrativa che ho scritto, si annidano gli imperscrutabili colpi di scena del mio DNA e del mio mondo onirico. L'unica cosa che posso dire con certezza è che le storie di Calvino sono state tra le prime scoperte letterarie che ho fatto interamente da solo. Verso il 1970, ho cominciato a trovarlo nelle traduzioni, nelle riviste e nelle librerie di Boston, dove vivevo, e le ho lette - letteralmente divorate - al di là di quelli che erano i miei incarichi universitari o le richieste dei professori.
i.
A_ Abbiamo parlato di Calvino e dell’influenza che, più o meno indirettamente, può avere avuto sulla tua produzione di scrittore. Quanto, allo stesso modo, le tue radici italiane (culturali ma anche genealogiche) hanno influito sulla percezione della tua identità? Per rendere la mia domanda più diretta: cosa significa per te essere italoamericano? È un qualcosa che ti ha reso, in senso figurato, più completo o più diviso?
J_ Penso che sia giunto il momento di tirare in ballo Frank Zappa. Sbaglio? È uno degli artisti che ancora non ho menzionato, eppure lo vedo seduto tra il pubblico di tutti gli incontri e i sui palcoscenici del mio Movieola!. Zappa, dopotutto, si è sempre preso gioco delle stravaganze tipicamente americane; inoltre è sempre stato entusiasta nello sfruttare le avanguardie tecnologiche, rendendosi conto – al tempo stesso – meglio di chiunque altro, che nessun nuovo aggeggio avrebbe mai potuto cambiare l'animale umano. Ed era – c’è bisogno che lo dica? – italoamericano. Il padre era emigrato dalla Sicilia e la famiglia della madre era napoletana. Mentre ascolto l'opera di Zappa, le sue sovrapposizioni strumentali barocche, la sua chitarra lirica, il suo umorismo nero ma sapiente, sento una delle ultime e più belle trasformazioni dello spirito italiano. Che io percepisca questo elemento nel suo lavoro prima della maggior parte degli altri, riflette sicuramente il modo di sentire me stesso e la mia vocazione. Anche in questo caso, c'è qualcosa di misterioso. Né mio fratello né mia sorella si definiscono particolarmente "italiani", anche se hanno visitato Napoli e sentito come me la lingua che si parlava a casa. Per me, però, l'etnia rimane centrale in quello che sono, per come interagisco e per qualsiasi tipo di arte che sono riuscito a creare. Sapete, c'è un critico e studioso italoamericano di nome Fred Gardaphé che ha partorito una bella citazione su questo libro, che mi sembra la perfetta nota conclusiva: "Se Pirandello fosse ancora in vita, oggi scriverebbe qualcosa come Movieola!”.
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Seconda delle tre parti dell'intervista a Enrico Pistoni. Venerdì 13 aprile l'ultima. (Parte prima)
JE: E tutto questo ha anche portato a prendere il personaggio Ignoranz Svapo e a farlo uscire dal video ed entrare in un romanzo o le due cose sono slegate?
EP: Sì, il mio canale si chiama, appunto, Ignoranz Svapo, La farsa è stata la mia occasione per prenderlo e portarlo in giro, fuori dai video.
JE: E cosa fa questo personaggio?
EP: Combatte tra il rifugio che si è creato con il suo personaggio e la difficoltà di andare fuori.
E poi c’è la vita che conduce, ci sono le persone che incontra. Una delle quali, uno per cui aveva fatto delle recensioni, nella storia diventerà il suo nemico, uno che lo minaccia, che non vuole che lui smetta di fare video.
JE: “Nemici in rete” è un tema di cui si parla molto. Il cyber bullismo. È davvero un fenomeno così diffuso?
EP: Dipende dall’accezione che vogliamo dare a questi hater. Il paragone con la televisione è questo: se uno guarda un qualcosa che non ama, cambia canale. Invece, su YouTube, prima di farlo ha la possibilità di scrivertelo, e spesso in modo parecchio esplicito.
JE: Ma fino a che si limita a scrivertelo è lecito, no? Io posso vedere un tuo video, non apprezzarlo e dirti cosa ne penso. Il problema, forse, ma ripeto, è un mondo che conosco poco e male, sono quelli che insultano, no?
EP: Certo, quelli sono meno numerosi, forse, ma ci sono anche loro. Figurati che diversi mesi fa feci un video che voleva essere ironico, sul Natale. E feci, come spesso faccio, parlare il mio personaggio con la musica. E prendevo in giro il Natale. Non puoi immaginare quanti insulti mi hanno scritto. Ecco, una cosa che ho capito con i social è di non toccare mai il Natale, si arrabbiano di brutto.
JE: Due anni di video, di lavoro, di editing, di social, cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto?
EP: Quello che ha tolto è semplice: il tempo. Chi vede video difficilmente sa quanto tempo ci vuole per realizzarli. Bisogna avere una idea. Bisogna scrivere un copione. Bisogna girarlo e poi editarlo. Tempo però che non è stato perso. In due anni ho imparato parecchio. Conosco il mondo della sigaretta elettronica molto meglio di due anni fa, riesco a girare più facilmente un video, riesco, insomma, a comunicare meglio.
JE: E in questo personaggio quanto c’è di Entico Pistoni?
EP: C’è molto di quello che sono e poco di quello che faccio. In parte è come fossi io, ma interpretassi non la mia vita ma quella di un’altra persona. Quindi almeno in parte, mie emozioni, sensazioni, modi di vedere la vita, quasi nulla di mio, invece, come trama, come storia.
JE Quindi il guscio è Ignoranz Svapo, l’interno sei tu?
EP: Una parte, sì, non certo tutto, ma una parte senza altro.
JE Qual è stato l'approccio alla scrittura? Che legame si crea con la trama?
EP: Non avevo un piano preciso in testa. Era solo un'idea, ossia quella di voler mettere in luce alcuni retroscena che lo spettatore di YouTube non può vedere. Certo, questa idea derivava sicuramente da alcune mie fatiche personali. Sono partito da quello che ho vissuto io in certi periodi, e ho provato a immaginarmi un personaggio che rimane fortemente invischiato dentro quei retroscena. Volevo portare all'eccesso le cose per vedere cosa sarebbe successo. Nel libro uso il mio vero nome(Enrico) e uso Ignoranz svapo, sebbene non sia una autobiografia o una cronaca di fatti realmente accaduti. È una storia, semplicemente.
JE: Come hai vissuto il legame che si crea, quando si scrive un libro, con l’editor?
EP: Prima di scrivere questo libro conoscevo per sentito dire la figura dell'editor ma non avevo davvero in mente il suo ruolo. Oggi posso dire che senza l'editor (Renzo Semprini Cesari) questo libro non esisterebbe. Mi ha aiutato in tutto, correggendo e fornendo stimoli. Per me ha svolto una funzione di specchio per quanto avevo scritto, e di bussola per quello che dovevo scrivere. Non gli sarò mai abbastanza riconoscente per il suo lavoro, lo so già.
JE: stai già pensando al prossimo romanzo?
Link alla terza parte dell'intervista
Link al romanzo.
In questo secondo podcast dedicato a Il Gioco 1.0 incontriamo Margherita Salterini, che ha dato vita al personaggio di Bianca Balassi. Partiamo da un aneddoto, che chi ha seguito la fase finale del il Gioco 1.0 forse conosce già, che vede Margherita Salterini e Angela Colapinto conoscersi da anni. Cosa che le ha portare a trascorrere insieme serate, magari fuori a cena sedute una di fianco all'altra con i rispettivi cellulari in mano, a commentarsi post e a scriversi messaggi nelle vesti, appunto, di Bianca Balassi e di Margherita Solani. Entrambe ignare di chi si celasse dietro all'altro personaggio.
Andiamo ora a conoscere più da vicino l'autrice, ospite del nostro podcast di oggi.
Serena Barsottelli: Chi è realmente Margherita?
Margherita Salterini: Margherita è abbastanza giovane, ha ventotto anni, vive a Bologna da sempre, nata e cresciuta, con mamma romana e mamma giornalista. E da lì quindi un po' nelle vene e nel sangue la passione per la scrittura, non fino a farne una professione, perché per grosso dispiacere della mamma non sono giornalista ma sono docente di lingue, lingue straniere all'Università e per diversi enti di formazione. E quindi questo faccio. La scrittura perciò è sempre stata parte integrante della mia vita ma più come diletto che come mestiere.
Angela Colapinto: Per te che cos’è stato per te Il Gioco 1.0?
Margherita Salterini: Onestamente all'inizio è tutto nato abbastanza per caso, ho visto la pubblicità di questo contest, siccome ne seguo parecchi in generale girando su internet, ho trovato che fosse interessante, ho provato a buttar giù due righe e ho mandato, senza troppe aspettative in realtà. Non avevo ben capito di che portata fosse questo esperimento, questo gioco, e onestamente non avevo neanche ben capito come potesse funzionare una cosa del genere; così, molto alla leggera ho provato ed è diventato quello che è diventato e che sapete benissimo anche voi, e che io sinceramente non mi aspettavo.
Angela Colapinto: È cambiato qualcosa in te dopo la partecipazione a Il Gioco 1.0?
Margherita Salterini: Non direi a livello proprio di cambiamento, però se posso peccare un attimino di vanità, certamente mi sento un pochino più sicura nelle mie capacità, a livello di scrittura proprio e di creatività dal punto di vista della scrittura, perché pensare a quante candidature arrivano e arrivare tra gli ultimi dieci vincitori, sicuramente vuol dire che, insomma, si è fatto bene, no?
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Cose da Grandi parla di immigrazione, di animali, di vita di strada. Quale di questi temi ti è più caro e quale è stato più difficile trattare?
Non credo ci sia grande differenza. Tutto dipende dall’empatia. Posso dire che inizialmente avevo pensato di parlare esclusivamente del rapporto uomo-animali, ma poi è venuto da sé spostare l’asse del racconto da uomo/animali a indifferenza/sofferenza. Quando si sente qualcuno affermare che non bisogna preoccuparsi degli animali perché “tanto sono solo bestie”, mi vengono immediatamente in mente situazioni in cui qualcuno scaccia in malo modo un mendicante perché si sente in diritto di umiliarlo, o affermazioni assurde e aprioristiche sugli immigrati e sul fatto di rispedirli ai loro paesi. In realtà in tutti questi casi c’è mancanza di empatia. La non volontà di cambiare il punto di vista, per mantenere una sorta di primato e credersi più importanti rispetto alla vita e alla sofferenza di altri esseri viventi. Io oggi mi occupo attivamente di diritti degli animali, ma sono convinta che se fossi vissuta alla fine dell’Ottocento in Inghilterra sarei scesa in piazza per reclamare il diritto di voto alle donne. Se fossi nata negli Stati Uniti, avrei combattuto per l’abolizione della schiavitù. Negli anni Cinquanta del Novecento avrei sfilato a fianco di Martin Luther King, negli anni Settanta con Harvey Milk. È una lunga battaglia per la liberazione e il rispetto che l’uomo combatte da secoli.
Il protagonista è Karim, un ragazzo siriano di diciassettenne anni che a causa della guerra nel proprio Paese è costretto a costruirsi una nuova esistenza. Hai solo immaginato ogni accadimento oppure ti sei documentata?
Purtroppo non conosco la Siria, ma ho viaggiato molto in altri Paesi del Medio Oriente. Il paesaggio, il modo di vivere lo conosco bene. Per quanto riguarda invece l’attuale situazione di questo terribile conflitto che sta distruggendo cose e persone, oltre alle notizie che i vari mezzi di informazione fanno arrivare in Europa, ho un canale di contatto diretto con quello che è conosciuto come il Gattaro di Aleppo. Quest’uomo, che ha perso tutto a causa della guerra, da anni lavora per una ONLUS francese e porta soccorso alle persone senza casa né cibo. Per sua iniziativa personale, e con il sostegno di molti stranieri, ha poi creato un rifugio per gli animali (in particolare gatti) abbandonati nelle vie della città, terrorizzati, affamati, spesso feriti, e ha dato loro ricovero e cure. Di fianco a questo rifugio è sorto anche un orfanotrofio per i bambini rimasti soli. Alaa (il gattaro) sostiene anche questa iniziativa, porta regali e un sorriso a bambini e spesso li fa interagire con i gatti, in una sorta di pet-therapy che dà sollievo agli animali abbandonati e regala un momento di gioia ai bimbi che non hanno più nessuno. Ogni giorno arrivano aggiornamenti e immagini dalla città. Aleppo oggi è una montagna di macerie. È assurdo a che livelli di male può arrivare la crudeltà umana.
Parte della storia è ambientata a Napoli della quale hai sottolineato, per esigenze di storia, più gli aspetti loschi che quelli folcloristici, caldi e generosi, e altra parte è ambientata a Roma. Che rapporto hai con queste due città?
Karim sbarca dopo un naufragio del suo barcone sulle coste del Sud Italia ed era inevitabile che nei suoi spostamenti arrivasse in una città del Sud (poi su, fino a Roma). Napoli è una delle città più belle che io conosca. Bella nelle parti eleganti del suo Lungomare, del centro, di Piazza Plebiscito e di via Toledo. Ma ancora più bella nei vicoli vivi e sonori, popolati da persone davvero calde e generose. Per questo mi è piaciuto parlarne nel libro. Ho scelto però di presentare il lato nero della città, perché si tratta di una realtà che sporca, corrompe la sua bellezza e la vera essenza. È una malattia profonda che va estirpata. Perché la vera Napoli è un’altra. Eppure gran parte della vita del posto è gestita da alcuni burattinai che si sono fatti sempre più forti da quando al coltello hanno sostituito armi sofisticate. Questa gente corrompe i giovani, e davvero li spinge a superare ogni senso di pietà costringendoli a torturare gli animali. È il primo passo verso l’annientamento delle coscienze. Così questi ragazzi possono facilmente diventare i burattini che loro cercano per farli muovere a loro piacimento, inducendoli a compiere reati sanguinosi senza sporcarsi le mani in prima persona. E forse proprio da un’azione volta alla salvaguardia degli animali potrebbe nascere un lavoro di recupero dei ragazzi (e, a volte, addirittura bambini) a rischio.
Per quanto riguarda Roma, invece, è una città dove vado spesso perché ci vivono dei carissimi amici. Con loro ho imparato a conoscere i colori, gli odori, le atmosfere. L’incontro di Karim con il barbone Carl avviene sulla riva del Tevere, al tramonto. Sono dorati, i tramonti, a Roma. è in questa atmosfera che ho immaginato la scena.
Parliamo di te. Che studi hai fatto? Quale è stato il percorso che ti ha avvicinato alla scrittura?
Io sono una prof di italiano latino in un Liceo delle Scienza umane. È un lavoro che ho intrapreso da giovane senza molta convinzione. Invece ho scoperto che è proprio il lavoro giusto per me. Stare con i ragazzi mi diverte e mi regala ogni giorno stimoli nuovi e positivi. Non mi sembra neppure di lavorare… Parallelamente a questo, però, ho cominciato a scrivere già dagli anni dell’università. Ho pubblicato alcuni racconti, ma soprattutto ho cominciato ad occuparmi (e mi sono occupata per molto tempo) di letteratura del Novecento. Ho pubblicato saggi, e poi ho collaborato con la pagina culturale di quotidiani nazionali. All’inizio della mia attività ho scritto anche tre romanzi. Uno (per ragazzi) era stato accettato da una grande casa editrice di Milano, ma poi la sorte avversa ha voluto che una ristrutturazione interna facesse cadere quel progetto. Io intanto mi dedicavo sempre di più alla saggistica. Nel 2002 ho pubblicato Il mestiere di leggere (il Saggiatore), una storia delle pubblicazioni della Casa editrice Mondadori vista attraverso i pareri di lettura, documenti editoriali di grande interesse per gli studiosi. Poi è nata una lunga passione per il poeta salernitano Alfonso Gatto. Dopo averne stilato, in collaborazione con Marta Bonzanini, la bibliografia completa e ragionata (un’impresa titanica…), ho pubblicato due sue raccolte di inediti e rari: Il Gatto in poltrona (una raccolta di critiche televisive) e Ballate degli anni, inedite in volume, scritte per la trasmissione televisiva Almanacco di storia, scienza e varia umanità (1963).
Intanto però si stava sviluppando e prendeva sempre più spazio nella mia vita la passione per gli animali. Così ho pensato di affrontare la sfida di un volume di divulgazione sull’argomento, ed è nato Bestie come noi (Effigie, 2016) che prende in considerazione vari aspetti del rapporto uomo-animali, e sostiene la tesi che una maggiore attenzione al benessere animale può portare a un miglioramento anche della qualità della vita umana.
Ora sono tornata alla narrativa, perché ho trovato un argomento che mi ha preso tantissimo. E il fatto di veder pubblicato ora un mio romanzo, a distanza di tanti anni dalle prime scritture, è una gioia davvero grande.
- Nome?
Prisca Aramini.
- Età ?
Quarantuno.
- Dove vivi?
In Fiammingozia.
- Il tuo maggior pregio?
Sono amichevole e ho sempre una buona parola per tutti.
- Il tuo peggior difetto?
Il mio gemello cattivo non ha peli sulla lingua.
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
Quel babbeo del gemello buono ha seminato nuovi peli sulla sua stupida lingua.
- Di qualcosa al tuo alter ego che non gli hai mai detto
Se non ci fossi tu, io sarei in carcere.
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Uno sdoppiamento della personalità ancora più grave di quello che già avevo.
- Nome?
Debora Gatelli.
- Età
Quarantuno.
- Dove vivi?
Ad Anversa (Fiammingozia).
- Il tuo maggior pregio?
Ho molta fantasia nel creare i miei personaggi! ;-)
- Il tuo peggior difetto?
Ascolto la gente fino allo sfinimento (mio).
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
E’ petulante e polemico fino allo sfinimento (altrui).
- Di qualcosa al tuo alter ego che non gli hai mai detto.
Comincio a sentirmi un po’ sfinita.
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Nuovi amici da ascoltare e con i quali polemizzare in allegra "petulanza"
Conosciamo meglio Giuseppe Patti e il suo personaggio: Giuseppe Calamitaro.
- Nome?
Giuseppe Calamitaro.
- Età?
Venticinque.
- Dove vivi?
Palermo.
- Il tuo maggior pregio?
Non credo di averne, pregi.
- Il tuo peggior difetto?
Forse sono un insicuro senza speranza, ed esisto.
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
Si crede migliore di me.
- Di' qualcosa al tuo alter ego, che non gli hai mai detto.
Pensa, vivi.
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Forse qualche ricordo, più o meno sfumato.
- Nome?
Giuseppe Patti.
- Età?
Ventidue.
- Dove vivi?
Palermo, ma sogno di girare il mondo, essere sempre in viaggio.
- Il tuo maggior pregio?
Non devo essere io a dirlo, non sarei oggettivo.
- Il tuo peggior difetto?
Tendo a sognare avvenimenti, irrealizzabili, più grandi di me.
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
Difficilmente sorride.
- Di' qualcosa al tuo alter ego, che non gli hai mai detto.
Sorridi.
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Tanto sonno arretrato.
Balassi/Salterini: offerta 2x1
- Nome?
Bianca Balassi.
- Età?
Trentacinque.
- Dove vivi?
A' Capitale!
- Il tuo maggior pregio?
So stare al (Il) Gioco.
- Il tuo peggior difetto?
Mento quando si parla di cibo.
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
Mangia TUTTO.
- Di' qualcosa al tuo alter ego, che non gli hai mai detto:
Prima o poi vedrai che il metabolismo ti cambia e...BAM!
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Io! E una manciata di altra gente inventata carina.
- Nome?
Margherita Salterini.
- Età?
Ventisette.
- Dove vivi?
Bologna.
- Il tuo maggior pregio?
Dico sempre quello che penso.
- Il tuo peggior difetto?
Dico sempre quello che penso.
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
È brava a fingere.
- Di' qualcosa al tuo alter ego, che non gli hai mai detto:
Basta con 'sto Nicola! NON NE VUOLE!
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Mi sa una marea di lavoro da fare :D
- Nome?
Margherita Solani.
- Età?
Trentaquattro anni.
- Dove vivi?
Ferrara.
- Il tuo maggior pregio?
La bellezza.
- Il tuo peggior difetto?
Ho difetti?
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
La rigidità.
- Di’ qualcosa al tuo alter ego, che non gli hai mai detto:
Se la smettessi di contraddirti...
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Sensazioni che non so se riuscirò mai più a provare (è cosa rara per me). E un “fidanzato”. Ho scritto fidanzato?
Angela
- Nome?
Angela Colapinto.
- Età?
Trentotto anni
- Dove vivi?
Bologna.
- Il tuo maggior pregio?
L'apertura mentale.
- Il tuo peggior difetto?
La scarsa tolleranza.
- Il peggior difetto del tuo alter ego?
La dà via.
- Di’ qualcosa al tuo alter ego, che non gli hai mai detto?
Copriti quel seno, per cortesia!
- Cosa ti resterà di questa esperienza?
Nuove conoscenze e tutto quello che ho imparato dal mettermi alla prova ogni giorno. Insieme alla possibilità che i sogni diventino realtà.
Intervistiamo Debora Gatelli, l'ultima scrittrice entrata ne Il gioco, ma subito parte integrante del gruppo, che ci porta la sua Prisca Aramini.
- Ciao, ti puoi presentare per noi ?
Mi chiamo Debora, ho 41 anni e sono cresciuta in un micropaesello della provincia di Varese. Ho studiato statistica all’università di Bologna e lavoro per la Commissione Europea a Bruxelles.
Nei miei quasi sei anni di vita in Belgio sono riuscita ad accalappiarmi un aitante autoctono fiammingo dal pelo biondastro, con il quale sto attivamente contribuendo al sovraffollamento del pianeta. Abbiamo infatti sfornato una pestifera vichinga due anni fa e ce n’è una seconda in fase di produzione!
Nonostante la formazione decisamente scientifica, ho da sempre una grande passione per la scrittura, che uso soprattutto a scopo terapeutico per travasare l’eccesso di emozioni dal cuore al foglio ogni qual volta lo spazio per contenerle risulti insufficiente.
Mi reputo una persona iperattiva e fortemente terrorizzata dalla noia; ciò fa sì che io rimpinzi la mia vita con le attività più disparate e tra loro incompatibili fino al punto in cui, ovviamente, non riesco più a gestirle tutte quante.
- Come sei venuta a conoscenza de “il Gioco”?
Sono iscritta da poco alla newsletter di Jona Editore e non ero dunque al corrente dell’esistenza de “il Gioco” quando furono fatte le selezioni iniziali. Ricevetti però una email a metà ottobre in cui cercavano ulteriori personaggi da inserire e l’iniziativa attirò immediatamente la mia attenzione.
- Come mai hai deciso di partecipare?
Ero in ufficio quando ricevetti l’email e pensai che sarebbe stato un peccato non provarci; così nella pausa pranzo scrissi una paginetta con la presentazione del mio personaggio e la inviai immediatamente. L’idea era davvero accattivante, mi sembrava una sorta di Grande Fratello per scrittori ambientato su Facebook.
Adoro scrivere e amo le sfide: non potevo fare altro che buttarmici a capofitto.
- Spiegaci cosa vuole dire stare per quattro mesi in un gruppo di estranei.
Il mio caso è leggermente diverso dagli altri in quanto sono entrata ne “il Gioco” per ultima. La mia permanenza nel gruppo è dunque stata di un solo mese e mezzo, ma la considero comunque un’esperienza molto forte.
Entrando a gioco già iniziato, mi sono trovata catapultata in un gruppo di persone che si conoscevano bene, avevano intrecciato relazioni piuttosto strette e spesso parlavano di cose che a stento riuscivo a capire.
I primi giorni sono stati molto intensi; ho cercato di leggere più post possibili per costruirmi un’idea dei personaggi e allo stesso tempo facevo del mio meglio per farmi conoscere da loro.
Una volta presa confidenza, l’esperienza è stata davvero arricchente. Come era prevedibile ho presto sviluppato una preferenza verso alcuni personaggi mentre altri mi sono rimasti piuttosto indifferenti, ma la cosa inaspettata è stato il forte e crescente coinvolgimento che mi ha portata a mischiare sempre più la mia vita reale con quella de “il Gioco” fino a procurarmi un principio di crisi di identità.
Non avendo idea alcuna di chi si celasse dietro ai vari personaggi, sono stata obbligata a prenderli per come si presentavano, fino a considerarli delle persone vere e proprie all’interno della mia vita. Insomma, a un certo punto mi sono scordata io stessa di essere un personaggio: è stato come vivere due vite contemporaneamente, da un lato la mia vita di tutti i giorni e dall’altro quella all’interno de “il Gioco”, in una sorta di dimensione parallela.
- Ci parli del tuo personaggio e di perché lo hai scelto?
Come dicevo poco fa, ho scritto il profilo del mio personaggio di getto, senza pensarci più di tanto. Mi è dunque venuto spontaneo crearlo a mia immagine e somiglianza, limitandomi a esagerarlo un poco sotto svariati aspetti.
Prisca Aramini sono io, unicamente senza freni e condizionamenti esterni. Posso dire che il mio personaggio sia una versione allo stesso tempo peggiore e migliore di ciò che sono nella realtà.
Prisca è il nome che mia mamma mi avrebbe volentieri appioppato quando sono nata se nessuno si fosse opposto, mentre Aramini era il cognome da ragazza di mia nonna.
Prisca Aramini soffre da sempre di un grave sdoppiamento della personalità che la rende piuttosto instabile e contradditoria agli occhi degli altri. E’ del segno dei gemelli e dentro di lei convivono due entità differenti che spesso litigano tra loro rendendole la vita piuttosto difficile ma anche molto eccitante; lei chiama queste entità il “gemello buono” e il “gemello cattivo”.
Ho scelto di impersonare questo personaggio perché mi sarebbe venuto naturale, senza forzature. E’ stato bello poter finalmente essere me stessa senza dovermi preoccupare di tenere a freno né l’uno né l’altro dei due gemelli, senza l’obbligo di mantenere un contegno per non fare brutta figura, senza la paura di sembrare una pazza.
- Che legami hai creato all’interno del gruppo?
Ovviamente non ho interagito con tutti allo stesso modo e fin dai primi giorni ho capito chi sarebbero stati i personaggi con i quali costruire un legame. Ho immediatamente sentito una forte affinità di pensiero e carattere con Margherita, affinità che è cresciuta con il tempo e si è mantenuta sino alla fine; Margherita è uguale e opposta a me, ha una mente fervida che va a braccetto con la mia lingua biforcuta e un’intolleranza che invita a nozze il mio gemello cattivo. Allo stesso tempo ho stretto amicizia con Vanessa, che mi ha dimostrato da subito un affetto sincero e con la quale ho fatto delle bellissime chiacchierate; Vanessa è riuscita a fare in modo che durante la giornata io mi sorprendessi a pensarla, chiedendomi come stesse e augurandomi che riuscisse a dormire la notte. Un legame completamente diverso è quello che si è creato con Andrea: poche conversazioni ma schiette e dirette al punto. Ho amato molto il suo personaggio proprio perché scomodo e ambivalente; il mio gemello cattivo si è relazionato con l’Andrea diabolico mentre il mio gemello buono si godeva l’Andrea sensibile e romantico. Un mix perfetto.
Posso dire di non aver creato alcun legame negativo o teso, perché il mio gemello buono è un vero maestro nel mantenere buoni rapporti con tutti. Resta il fatto che con alcuni personaggi non ho avvertito nessuna particolare affinità e non mi sono sentita in dovere di sforzarmi per crearla.
- Una cosa che cambieresti? Una persona che non avresti voluto conoscere all’interno del gruppo?
Avrei davvero preferito poter entrare nel gruppo all’inizio de “il Gioco” invece che alla fine; ciò mi avrebbe dato la possibilità di costruire rapporti più approfonditi e di vivere l’avventura in modo più completo. Non c’è nessuna persona che non avrei voluto conoscere, ma ce ne sono alcune che anche se non ci fossero state non avrebbero fatto per me una gran differenza.
- Adesso spiegaci cosa hai provato nel conoscere la vera identità dei tuoi compagni di gioco.
È stato emozionante, l’ho davvero vissuto come un momento carico di tensione e curiosità. È stato anche difficile, perché da un momento all’altro tutte le maschere sono cadute e i personaggi che credevo di conoscere hanno cambiato aspetto. Improvvisamente ognuno di loro aveva un viso, una vita, un ruolo completamente diversi da quelli a cui mi ero abituata.
Ho anche provato un lieve senso di smarrimento e confusione, mentre tentavo di raccapezzarmi tra nomi e visi degli autori. E’ stato divertente scoprire che due dei personaggi uomini erano in realtà delle donne, è stato esilarante scoprire che due delle ragazze sono amiche nella vita e non hanno mai sospettato l’una della presenza dell’altra; è stato bello e brutto allo stesso tempo perché un intero nuovo mondo ci si è aperto, disperdendo un poco la magia dell’incognito nella quale ci crogiolavamo da tempo.
- Finito il gioco e le pubblicazioni che ne derivano, cosa pensi che succederà al tuo personaggio?
Prisca è sempre esistita e continuerà a esistere. Il Gioco è stato una meravigliosa opportunità per trovarmi faccia a faccia con diverse parti di me, concedendomi il lusso di lasciarle libere di esprimersi. Credo che sfrutterò questa occasione per non richiudere il gemello cattivo in uno stanzino; ho sempre saputo che tra i due è lui il più in gamba e non è giusto che io lo soffochi continuamente. Farò del mio meglio per tenere vivo il mio personaggio e per farlo crescere ulteriormente; Prisca non ha avuto il tempo di essere tutto quello che è, e io non vedo l’ora di poterle dare tutto lo spazio che merita.
- Al di là del gioco, progetti di scrittura?
Come dicevo, in genere scrivo a scopo terapeutico; la mia ispirazione non è mai stata a getto continuo e da sempre alterno periodi di produzione a lunghi silenzi. Forse è giunto il momento di fare un passo avanti, di crescere sia come voce che come penna. Mi piacerebbe riuscire a sganciarmi da me stessa e scrivere finalmente qualcosa che non sia introspettivo o autobiografico; vorrei inoltre spingermi al di là del semplice racconto e provare a concepire qualcosa che assomigli a un romanzo.
- Un ultimo aggettivo, solo uno, per definire i tuoi quattro mesi ne Il gioco.
Destabilizzanti.
Intervistiamo Mariarosa Quadrio, in arte Vanessa Vallini, protagonista ne Il gioco.
- Ciao, ti puoi presentare per noi.
Salve, mi chiamo Mariarosa (per tutti, Mari). Mi piace molto leggere e ogni tanto, qualcuno direbbe troppo spesso, mi diletto a scrivere qualcosa.
Sono sempre di corsa, cerco di far rientrare nelle ventiquattro ore, più di quanto sia umanamente possibile. Mi divido, o almeno ci provo, tra i miei mille ruoli:
- moglie: sono sposata da ben venticinque anni. Sì, lo so: anche io mi chiedo come mio marito possa sopportarmi da così tanto tempo! Mistero incomprensibile del fato.
- madre: ho due “bambini”. La piccolina ha 18 anni e l’altro 23… sorvoliamo sulla mia età, per favore!
- Infermiera: lavoro in un centro di riabilitazione psichiatrica, ma a volte mi chiedo se invece non sia il centro a riabilitare me:
- e poi cuoca, cameriera, psicologa, giullare di corte e tutto quello che ogni donna deve fare ogni giorno. Il poco tempo che mi resta, di solito sottratto al sonno, lo dedico ai miei interessi: lettura, scrittura, disegno, musica...
Avrei bisogno di giornate più lunghe!
- Come sei venuta a conoscenza de Il gioco?
Girovagando tra i vari siti di concorsi letterari, se non ricordo male.
- Come mai hai deciso di partecipare?
Il post che ho visto in rete ha subito attirato la mia attenzione per la sua particolarità. Non veniva richiesto un racconto come nei normali concorsi letterari, ma solo una scheda di un personaggio. Creare i personaggi da far muovere poi in una storia è la parte che mi diverte di più, quando scrivo un racconto e mi sono detta: “Che bello! Voglio provare anche io”. Tra l’altro non mancava molto all’inizio dell’evento ed ero sicura che non mi avrebbero nemmeno presa in considerazione. Invece poi è successo e mi sono trovata in questa folle, meravigliosa ed eccitante avventura… ancora non me ne rendo conto!
- Spiegaci cosa vuol dire stare per quattro mesi in un gruppo di estranei.
All’inizio, non mi sono preoccupata troppo del fatto che fossero estranei. Ho frequentato vari siti di aspiranti scrittori e non ho mai avuto problemi a interagire con gente che non conosco. La convivenza stretta e continua con gli altri componenti del gruppo mi ha poi dato modo di legarmi a ciascuno di loro: con alcuni direi in maniera anche profonda: non è la prima volta che creo amicizie forti con persone conosciute sul web. Sono abbastanza socievole e mi piace confrontarmi con persone diverse da me, dal confronto con gli altri si impara molto, e sono curiosa e ho voglia di provare sempre esperienze diverse.
- Ci parli del tuo personaggio e del perché lo hai scelto?
La mia Vanessa è fatta abbastanza a mia immagine: insicura, ansiosa, con una bassa autostima… già, i suoi difetti li ho tutti! In pratica è la me nel caso in cui, venticinque anni fa, non mi fossi sposata e non avessi formato la mia famiglia: una specie di “sliding doors”. Mi sono chiesta come sarebbe potuta essere la mia vita e ho dato il via alla mia fantasia, immaginando che tipo di persona sarei diventata. Ne è uscita una donna di 35 anni sola al mondo, complessata e che soffre di attacchi di panico. Segnata dalle ripetute relazioni sbagliate. Una che ha perso, oltre la speranza di trovare “l’uomo della sua vita”, anche la voglia di mettersi in gioco. Insomma, una donna sull’orlo di un precipizio, in un equilibrio talmente precario che le basta poco per essere trascinata nel baratro delle sue folli paure.
- Che legami hai creato all’interno del gruppo?
Credo di aver instaurato un buon rapporto con tutti, ma forse sarebbe meglio chiederlo agli altri… Ho avuto le mie simpatie fin da subito per Giuseppe e Andrea, ma nel complesso avevo un buon rapporto con tutti: sono un tipo accomodante. Poi, col proseguire degli eventi sono insorte gelosie, e piccole incomprensioni con qualcuno, ma non vi svelerò nulla di più!