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Ogni oggetto riluceva in quella baia. Deve esser scesa la Shekinah1, pensai. Deve esser buon segno, pensai. Mi accamperò qui, pensai.

Avevo bussato, non avevano risposto. Forzai l’ingresso, la porta si lasciò aprire docile. Chiamai, non ebbi risposto. Ci saremo solo io e Dio in questa piccola casetta di legno, ritenni.

Chiusi la porta sulla tormenta di neve, sulla foresta siberiana, sulla mia sventura. Scaldarmi, dovevo scaldarmi. La neve mi copriva, i movimenti erano lenti. Ai lati degli occhi, dal naso, sulla barba… solo ghiaccio. Tremai.

C’erano coperte e un letto in quella casa, c’era un bagno e una cucina. Solo la polvere tradiva uno stato di lungo abbandono; solo i vetri spaccati dal freddo e la neve per terra suggerivano l’assenza umana.

Accendere il fuoco, dovevo accendere il fuoco; dovevo prendere la neve e farne acqua bollita; dovevo spogliarmi, togliermi le scarpe e sperare di non staccarmi l’intero piede. Avevo perso sensibilità al corpo, da giorni non sentivo la fame né il freddo. Solo al focolare di quella casa riscoprii di esser un figlio di Adamo, per di più allo stremo.

Fuggire dal treno che porta al gulag per morire comunque di stenti nella foresta. Fuggire dall’Egitto per morire di stenti nel deserto. In entrambi i casi si muore liberi e, se posso permettermi, preferisco così.

C’era della legna vicino al camino, buon segno, dovevo aver trovato la manna. Mi avvicinai zoppicante, il piede destro era congelato. Tolsi i guanti, ma avevo scarsa sensibilità alle mani. Mi ci volle forse un’ora per accendere il fuoco, per sciogliermi le ossa. Tentai di spogliarmi, avevo enormi difficoltà, la pelle era attaccata ai vestiti, mi ci volle parecchio per non spellarmi.

Tolsi le scarpe, il piede destro era viola, la pelle aperta, il sangue congelato. Brutto da vedere, bruttissimo da sopportare.

Feci impacchi di acqua calda per scaldarmi, per ridar vita alle ossa.

Presi dalla tasca interna del cappotto la lettera di Adelya, la mia Adelya, la mia speranza, la mia forza, il motivo per cui ero fuggito. Per questa lettera ero corso nella foresta mentre i mitra dei compagni aguzzini tiravano alla cieca nella mia direzione. Non avevo catene, potevo farcela. Ero lontano da casa, ma potevo farcela.

Presi la lettera che avevo salvato dal trasferimento al campo. Una lettera breve: “Ti amo Vania Shlomovich Grossman, ti amerò per sempre. Amo tutto di te, amo anche la tua dedizione a stampare il giornale. Amo la tua ostinazione ad amarmi e ad amare la vita. Torna da me Vania, torna da me. Amore.”

Poche parole, la conosco Adelya, la mia Adelya, poche parole, bastano per dire tutto.

Tornerò da lei, l’abbraccerò, sono tornato, le dirò, ora possiamo anche lasciare la Russia, le dirò. Andremo in Palestina, fa caldo lì, staremo bene, potremo crescere i nostri figli, potremo scrivere quello che ci pare sui giornali. Ma dopo, prima facciamo l’amore. Adelya, la mia Adelya. Le dirò così.

Ero stanco, ero stremato, ero privo di forze. Sollevai il mio corpo da davanti al fuoco e mi trascinai a letto sorreggendomi a fatica.

Un letto matrimoniale, un armadio e una sedia. Era diventato tutto così triste e spento. La sedia era solitudine, era abbandono, era dove mio padre dormiva al capezzale di sua madre morente.

Papà, giovane, seduto sulla sedia di fianco al letto di nonna. Dormicchia, poi lei lo chiama. Non so cosa gli dica. Io ho dieci anni e sbircio la scena dalla porta socchiusa. Un lume sul comodino illumina la stanza. Mio padre fa cenno di entrare. Sorride da sotto i folti baffi. Ha la kippah e le trecce, mi fa cenno di avvicinarmi, nonna mi stringe la mano… ricordo che papà sorrise, poi il ricordo si dileguò.

Chiusi la porta. Mi spogliai. La camera da letto aveva una finestra intatta e ben chiusa. Mi misi sotto le coperte e presi sonno chiedendomi, come fosse la Palestina; come fanno le persone ad attaccarsi alla terra e come si fa ad esser nazionalisti. Pensai che avevo trovato rifugio in una casa che non era mia, mi sentivo accolto lo stesso. Pensai che solo dove c’era Adelya, la mia Adelya, mi sarei potuto sentire a casa.

Recitai le preghiere e mi addormentai.

Al mattino seguente mi tirai giù dal letto e mi vestii. Mi diressi a tentoni verso il bagno e poi mi dedicai ad esplorare la piccola casa: una sala, un bagno, una cucina, una camera da letto. Piccola, funzionale, una baia per cacciatori nella foresta.

Trovai un fucile a doppia canna e un coltello da caccia, trovai del tabacco per pipa, i fiammiferi e una pipa. Trovai un fucile pre-rivoluzione. Trovai munizioni per le armi. Trovai di che vestirmi, un abito da uomo in stile Tolstoj, pellicce, scarponi, guanti.

Usai un fucile per stampella e andai a caccia. Se non avessi trovato nulla da mangiare sarei morto entro pochi giorni.

Il sole illuminava la neve e questa faceva risplendere ogni cosa. Ero debole, affamato, avevo i crampi allo stomaco, avevo un piede quasi in cancrena, ma potevo vedere lo splendere della parola di Ashem2 sul mondo. Anche oggi sono vivo, pensai; anche oggi posso pensare a te, Adelya, la mia Adelya, pensai.

Mi inoltrai nella foresta senza perder di vista la casa e Dio mandò un cervo davanti al mio fucile. Mirai. Sentivo il mio respiro, sentivo il suo; sentivo il mio cuore, sentivo il suo. Non mi piaceva uccidere, ma feci partire un colpo e il cervo cadde. Un silenzio irreale si diffuse per l’aere. Lo sparo mi aveva stordito e tappato le orecchie. Non mangerò kosher3, pensai, ma la contingenza mi scuserà, pensai.

Mi portai alla carcassa dell’animale e lo sgozzai per farne defluire il sangue. Aprii uno squarcio nel ventre e buttai fuori le interiora e gli organi che non avrei mangiato. Con estrema fatica, lo portai vicino casa. Presi fegato, polmoni, cuore. Non avevo forze per scuoiarlo. Sotterrai il resto nella neve. Avrei bollito la carne. Potevo solo accendere il fuoco, mettere una pentola di neve a bollire e buttarci dentro la carne

Pregai. Mangiai. Feci gli impacchi caldi al piede e mi accesi la pipa.

Ho sei anni, mio padre è sulla poltrona davanti al fuoco, fuma la pipa. Zio Josef è in piedi, gli sta parlando. Shlomo, dice, perché non vuoi mandarlo alla scuola chassidica4?, chiede. No, Josef, siamo ebrei, siamo osservanti e siamo cresciuti nel chassidismo, ma non voglio che mio figlio segua la stessa scuola, dice mio padre. E che vuoi?, chiede zio. Che segua una scuola più aperta e più “pratica”, risponde mio padre. Poi papà si alza, tira una boccata di pipa e dice: i tempi stanno cambiando, Josef, bisogna saper essere moderni, bisogna che sappia scender a compromessi, ho paura per lui, dice mio padre. Vania, non origliare, dice mia madre. Ma parlano di me, replico, su, fai il bravo, vieni, aiutami in cucina. Mi giro, mia madre è giovane e bellissima, coi capelli neri, con un sorriso luminoso, con la bocca sottile, con un grembiule da cucina… mia madre, il suo odore.

Mi svegliai sulla sedia vicino al fuoco con la voglia di piangere, la pipa mi era caduta per terra. Mi ero addormentato durante una rimembranza. Fuori era calato il buio, il fuoco era quasi spento. Andai a letto, pregai e mi addormentai.

Durante la notte salì la febbre. Deliravo ed ero in uno stato di dormiveglia. Quando vidi mio padre sulla sedia pensai che fosse la fine. Era vecchio, stanco, piccolo e debole; capelli grigi e lunghi, la barba di qualche giorno. Papà, che ci fai qui?, chiesi. Sono venuto a salutarti. È tempo di andarmene?, chiesi. Non ancora. Sono venuti a casa, hanno fatto un casino, il cuore di padre non ha retto. Dove andrai?, chiesi. Nella casa dei miei avi. Com’è la morte?, chiesi. Una cosa come tante. Come so quando è il momento?, chiesi. Quando la Shekinah scenderà e tu vedrai bene perché ogni cosa sarà illuminata. Sembra una bella cosa, dissi. Vivere, figliolo, è una bella cosa. Spero di rivederti quando Ashem mi avrà svegliato, dissi. Anch’io, figlio mio. Buon viaggio, padre, gli augurai. Buona notte, figliolo.

Dormivo, vegliavo, mi giravo e rigiravo nel letto. Fuori ululavano i lupi. Dovevano aver trovato la carcassa. Addio mosco, pensai. Domani dovrò riandare a caccia, pensai.

Rimasi a letto a lungo anche dopo che il sole illuminò la stanza. Provai a riposare, ma non c’era nulla da fare. Avevo sudato molto durante la notte, ma avevo ancora i brividi di freddo.

Mi chiesi quando sarebbe entrato Shabbath5, pensai che forse era già iniziato la sera prima e quindi potevo restare a letto.

Vania! Vania! Svegliati!, chiama mia madre. Ah, che vuoi?, faccio. È mattina di Shabbath, dice. Il Ya Ribbon Olam mi prescrive di starmene a letto, dico. Mia madre risponde che il Ya Ribbon Olam6 vuole che condivida questo giorno con parenti e amici, vuole che studi la Torah. Non vuole che rimanga a letto a poltrire. Dai che dobbiamo pregare tutti insieme, i tuoi zii e i tuoi cugini sono qui, dice mia madre. Vengo, ma tra un po’, dico. Va bene Vania, ma sbrigati, dice. Mi riaddormento pensando al solito Shabbath in famiglia. Ho ventanni, voglio dormire, venerdì sera sono stato da Adelya, la mia Adelya. Mi riaddormento, ma per poco, mia madre torna alla riscossa bussando forte alla porta.

Mi svegliai di colpo, no, non era mia madre a bussare, era un colpo di fucile. Poi un altro. Poi un guaito. Il cuore prese a pulsare. Mi buttai giù dal letto e mi lanciai sui fucili. Mi affacciai alla finestra con attenzione. Non vidi nulla.

Sentii movimento nell’altra stanza, doveva essere entrato qualcuno. Mi avvicinai alla porta per origliare.

Sì, ci deve essere qualcuno! In guardia ragazzi, potrebbe essere uno schifoso comunista giudeo, sentii.

Controrivoluzionari, pensai, non credevo ce ne fossero ancora. Questi sono più stupidi dei soviet, più cattivi, pensai. Qualche vecchio nobile antisemita deve aver convinto qualche ragazzino a combattere contro i bolscevichi. Schifosi relitti del passato, pensai.

Tu!, guarda quella stanza, facciamo pulizia, da qui sarà facile nascondersi.

Grassatori, pensai, solo dei miseri grassatori con velleità reazionarie.

La porta venne aperta con un calcio. Mi spostai restando attaccato al muro. Entrò un ragazzo col fucile puntato. Non c’è nessuno, disse. È giovane, ma dovrò violare la legge di Moseh comunque, pensai. Si girò, mi vide, stava per puntarmi il fucile. Troppo tardi. Aprii il fuoco. Venne schiantato a terra con lo sterno bucato.

Esci, fottuto giudeo!, urlarono. Come fate a sapere che sono giudeo?, chiesi, caricando il proiettile. Tutti i comunisti sono degli schifosi giudei!, disse. Mi affacciai puntando l’arma e aprii il fuoco. Mi faceva male la testa, mi faceva male il piede, mi facevano male le braccia per il rinculo, ma un altro ragazzo era morto per mano mia.

Ero grato ad Ashem per avermi dato un fucile pre-rivoluzionario che non si inceppasse, ma non perdetti tempo in meditazioni, tornai all’attacco. Il terzo camerata si era abbassato per proteggersi, io avevo già impugnato il fucile da caccia. Il camerata guardava il compare morto ed io pregavo, recitavo il salmo di David… Lo freddai con un colpo alla testa. Tutto accadde in pochi secondi.

Non uccidere, il Signore è il mio pastore, non uccidere. Mi pulsava la testa, ma sulla porta d’ingresso spuntò un altro ragazzo. Fece fuoco, prese la coscia destra, persi l’equilibrio, ma feci partire un colpo. Colpito all’inguine si piegò tra i cadaveri dei lupi. Dovevano averli freddati prima.

Ricorda Vania, prima di essere Russi siamo comunisti, ma prima di essere comunisti siamo Ebrei, dice Moseh Buber. Il mio miglior amico. Ho ventidue anni, siamo andati all’assemblea dei lavoratori. Avevamo letto il libretto distribuito dai socialisti, era uno scritto di Marx ed Engels, sapevamo che Marx era uno di noi, ebreo. Ci piacevano quelle idee. Odiavamo lo zar e i nuovi progrom. Secondo i boeri eravamo noi Ebrei ad incitare la rivolta al solo scopo di avere uno stato nostro. Idioti antisemiti! Eravamo solo stanchi della guerra, come tutti.

Ricorda Vania, noi restiamo sempre e comunque Ebrei, anche se non portiamo più le peoth e la kippah, mi diceva Moseh. Che intendi?, chiedo. Che ci sarà sempre qualcuno che ci odierà, mi risponde. Sta per continuare, ma un cane nero grande e grosso si mette ad abbaiare verso di noi e ci interrompe. Cagnaccio!, dice Moseh. Sembra Rasputin, dico, è vero, fa lui. Taci Rasputin!, sei solo un infame!, urla Moseh mettendo a tacere il cane.

Guardavo un lupo morto, pensavo a Rasputin, il cane, pensavo a quella camminata con Moseh Buber e all’assemblea dei lavoratori. Appoggiato al fucile presi a camminare verso la porta come in trance.

Bum. Colpo di pistola secco. Foro sul fianco destro. Mi girai e vidi un uomo con folta barba grigia vestito da ussaro, il capo dei briganti. Lo guardai, mi guardò puntando la pistola. Lasciai il fucile portando una mano alla ferita. Caddi schiena a terra.

Ahi mamma, dico. Sono appena caduto, ho sette anni. Forza rialzati, dice mia madre. No, mamma, non voglio andare alla scuola ebraica, le dico. Non dire sciocchezze, dice, ora alzati e andiamo. Ma perché?, chiedo. Perché siamo Ebrei e andiamo alla scuola ebraica, risponde. E perché siamo Ebrei?, chiedo. Perché Ashem ci ha affidato la sua Legge per la gloria di tutti gli uomini, dice. E non poteva darla qualcun altro?, insisto. Lo ha fatto, ma solo noi abbiamo accettato, quando conoscerai bene la Torah potrai sottrarti al compito di Ashem, ma se non la conosci che razza di scelta vuoi fare?, dice mia madre.

L’ussaro si avvicinò, spada sguainata, lo sentivo, stava per finirmi, tutto stava diventando buio, mi piego su un fianco.

Ho tredici anni, sono in Sinagoga, sto leggendo la Torah, è il mio bar mitzvah7. Alzo gli occhi dal rotolo, ho finito, applausi e “Mazel Tov”8. Mio padre mi guarda, mi sorride, è commosso, sono felice, gli sorrido.

L’ussaro mi diede un calcio, restai immobile. Strinsi il coltello da caccia, mi girò col piede. Con un gesto rapido gli tagliai la coscia. Ringhiò e cercò di trafiggermi. Mi mancò cadendomi addosso. Lo accoltellai, non uccidere, lo accoltellai ripetutamente, il Signore è il mio pastore, girai la lama nella pancia, non uccidere, non manco di nulla. Non si muoveva più, mi girai verso la porta, dandogli le spalle.

Bum. Colpo di pistola secco. Sentii il sangue gelare. Ero di nuovo schiena a terra. Guardai in alto, lui si trascinava su di me. Aveva la Sitra Achra9 negli occhi, aveva mille Satanim10 dentro. Mi era addosso, mi puntava la pistola alla tempia. Sputava sangue, aveva di nuovo il mio pugnale in corpo.

Ho ventiquattro anni, è il mio matrimonio. Ho ventiquattro anni e ballo con Adelya Yakovna Tulowski-Grossman, la mia Adelya. Sono tra le sue braccia e lei è tra le mie ed ogni cosa è illuminata.

Bum. Colpo di pistola secco.

1 Lett. “Dimorare”, nell’ebraismo rappresenta la presenza fisica di Dio.

2 Lett. “il Nome”, è uno dei nomi di Dio nell’ebraismo.

3 Lett. “adeguatezza”, indica nell’ebraismo il regime alimentare e di macellazione che stabilisce i cibi puri.

4 Chassidismo, movimento di rinnovamento dell’ebraismo ortodosso incentrato su soclarizzazione, spiritualità e mistica interiore.

5 Lett. “smettere”, è giorni di riposo ebraico, va dal tramonto del venerdì a quello del sabato.

6 Lett. “Signore dell’Universo”, uno dei nomi di Dio, usato anche per la preghiera di Shabat.

7 Lett. “Figlio del comandamento”, indica il momento in cui un ragazzo diventa spiritualmente responsabili dei suoi atti. Il rito rappresenta l’ingresso del giovane nella comunità.

8 Lett. “Buona fortuna”, un tipico augurio ebraico.

9 Lett. “L’altra parte”, indica il lato oscuro e demoniaco dell’universo.

10 Lett. “avversari”, indica degli spiriti maligni.

Pubblicato in concorso

C’è stato un periodo della mia vita, un lungo periodo della mia ancora breve vita, durante il quale il mio sguardo sul mondo, diciamo, non ha goduto di una buona messa a fuoco. Riconosco che crescere in una famiglia nella quale la frase più cordiale era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito; e lo scambio di battute più lungo era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito - Perché il macinato era in offerta - Era ora, in quella merda di supermercato non c’è mai uno sconto buono; possa rendere difficile a chiunque trovare equilibrio e mettere a fuoco un obiettivo, ma anche io facevo la mia parte e a quei dialoghi costruttivi replicavo che se pure loro avessero fatto qualche saldo e si fossero scavati un buon cinquanta per cento dai maroni, forse anche la mia vita avrebbe fatto meno schifo. Fine delle discussioni, fertile scambio di idee dopo che in famiglia non ci si era visti per tuta la giornata. Consumato il resto della cena in silenzio, mia madre rassettava la cucina, mio padre sprofondava sul divano e io e mia sorella scomparivamo ognuno all’ombra della propria stanza, lei incontro all’ennesima serata a parlare al telefono con un’amica, che tanto non c’era nessun ragazzo che le filava, e io incontro al solipsismo e alla ricerca di qualche canale tv proibito sulle reti d’oltre mare. Durante quel lungo periodo oscuro ho assolto ai miei doveri di figlio con la devozione di un frate trappista astemio, e la forte convinzione decubertiana per cui l’importante non era vincere, ma partecipare. La scuola era un obbligo e come tale l’affrontavo, ben attento a evitare le luci della ribalta. Serviva almeno un sei in ogni materia per non essere rimandato, e io sei prendevo, salvo un sette in ginnastica, dove non riuscivo ad arginare il mio piacere per il calcetto. Mai una nota, mai una convocazione dei genitori, tutto nell’ordine del minimo sindacale per non attirare attenzione e concludere il percorso il prima possibile, evitando penalità ed errori. Che all’assenza di infamia corrispondesse anche assenza di lode poco interessava, sia a me che ai miei famigliari. Qualche organismo del corpo docente, cellula impazzita nella mediocrità degli insegnanti, aveva provato a manifestare il proprio disappunto.

- Hai delle potenzialità. Diceva Tommassoni alle medie, il professore di tecnica. - Perché le vuoi sprecare?

- Parietti, tu non sei del tutto una capra. Diceva Zaccherani, il professore di diritto privato a ragioneria. - Eppure stai nel gregge, nascosto e allineato. Non vuoi prendere un po’ di luce, combinare qualcosa di buono nella vita?

Io lo volevo combinare qualcosa di buono nella vita, ma non ero convinto che per farlo servisse un maggiore impegno a scuola. Mio padre aveva un’attività in proprio, faceva il barbiere, e mia madre era impiegata al supermercato vicino a casa. Entrambi mi sembravano tutto fuorché dei geni, e per quanto ne sapessi avevano finito la scuola media, ma non erano andati oltre al terzo anno di superiori. Allora a cosa serviva andare bene a scuola? Se bastava non essere del tutto scemo per trovare lavoro io già ero a posto, per il resto, il buono che volevo combinare nella mia vita non riguardava ottenere chissà quale occupazione. Non sapevo neanche io cosa riguardava, ma col tempo l’avrei capito, e intanto macinavo giorni, mesi e stagioni, lasciando che il buio rendesse sempre più opaca la mia visuale.

A scuola non avevo amici, ma non ero neanche impopolare. Nei primi anni di ragioneria, l’aria del dannato, che io rinnegavo, ma che a quell’età si autoalimenta se solo parli poco, sorridi poco e non fai comunella con nessuno, mi rendeva anche attraente agli occhi delle ragazze - e nella mia classe ce ne erano venti, su venticinque che eravamo in tutto - peccato che loro non fossero attraenti per me. Su venti anime femminili, venti cessi, una cosa da non credere, dovevano aver fatto una selezione: ‘Siete gli scarti di Madre Natura? Su con la vita, venite da noi. Sotto la seconda di tette: il sei è assicurato. Denti storti: sei e mezzo. Capelli unti e stopposi: sette meno. Culo basso: otto. Brufoli e alitosi: diploma ad honorem e abbraccio accademico!’ Se l’avessi saputo prima avrei fatto l’Alberghiero.

Degli altri quattro sventurati conoscevo il cognome per assuefazione all’appello, e a quello avevo associato un nome per mero spirito enigmistico: ‘Colora gli spazi bianchi con il puntino e scopri cosa apparirà’, ma anche associando nome e cognome gli sparuti colleghi maschi rimanevano quattro emarginati. Carletti Matteo, un metro e settanta di ossa e occhiali, propensione allo sport zero meno. Ersili Ersilio, un metro e ottanta, buon difensore centrale, ma troppo incline alla rissa. Galimberti Fabio, un metro e settantacinque, normale fino alle caviglie, da lì in giù due ferri da stiro. Sariotti Tommaso, un metro e ottantadue di boria, figlio di un grosso commercialista: un predestinato. Dalla prima superiore per fare ginnastica si cambiava le scarpe e si metteva calzoncini e polo con le iniziali ricamate. Ho scoperto solo in quarta che non erano le sue di inziali, ma quelle di un certo Tacchini Sergio, e Sariotti mi sembrava ancora più sfigato.

Fuori dalla scuola andava meglio. Erano anni nei quali si giocava in strada. Non abitavo in un quartiere di bande, ma si creavano alleanze tra i ragazzi della stessa via e io ero uno dei leader di Via Medusa, gemellata con Via Andromeda e un tratto di Via Vega. Per noi, cresciuti con Goldrake Ufo Robot, confinare con Via Vega era una figata assurda, ma oggi nessuno lo può capire. In ogni caso, anche in strada non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Facevamo di tutto: truccavamo i motorini, ci lanciavamo con lo skateboard o le caratelle, andavamo a pescare al vicino lago della Cava, rientravamo a casa solo quando faceva buio e le madri strillavano affacciate ai balconi, o attraverso gli infissi aperti delle cucine. Eravamo liberi, ero libero, eppure mi mancava qualcosa, non riuscivo a trovare la mia luce.

Verso la fine della quinta, Mirco detto Lillo, un ragazzo di Via Andromeda sempre aggiornato su impianti stereo e videogiochi, se ne era uscito fuori con la fissa per la fotografia. Erano arrivate le prime macchine digitali e all’improvviso si potevano scattare foto su foto senza preoccuparsi di comprare rullini, centellinare gli scatti, sviluppare e poi stampare, che di trentasei foto che aveva un rullino la metà erano sempre mosse o col soggetto tagliato. Io non ero un patito del settore, ma, per quanto la mia fosse una famiglia disgraziata, andavamo tutti gli anni in vacanza e anche mio padre, come la maggior parte dei padri, in vacanza teneva al collo una compatta con rullino a colori. Le fotografie che si ammucchiavano nella scatola di legno, dove venivano assiepati i raccoglitori a libretto di plastica trasparente con il logo del fotografo sul fronte, erano sempre le stesse: orizzonti, campeggi, la neve d’inverno sulle colline limitrofe e il mare d’estate, qualche scatto ai monumenti, le pose stanche, le pance sfasciate. Ma il digitale era una vera e propria rivoluzione.

- Puoi scattare quante foto vuoi, le rivedi subito e quelle brutte le puoi cancellare. Anzi, non ti devi neanche preoccupare di cancellarle, perché su una scheda come questa, da centoventotto mega, ci stanno più di cento foto, e se le salvi sul computer la scheda la resetti e torna come nuova. Non è una figata?

Era una figata, non me ne fregava niente, ma dovevo riconoscere che era una figata.

- Ma la fotografia vera resta quella con la reflex. Aveva ripreso Lillo una volta raccolto il mio entusiasmo. – Gli apparecchi digitali sono divertenti, ma non potranno mai sostituire l’ottica di una buona macchina fotografica: il gioco dell’esposizione, la messa a fuoco, la luce.

Lillo sosteneva che la fotografia era un’arte. Gli avrei anche potuto credere, quello che non capivo era perché lo stava confidando a me. Diceva che una fotografia fatta bene sapeva cogliere sia l’anima del soggetto che del fotografo. Io restavo smarrito tra le ombre della mia ignoranza, ma il tema iniziava a catturare la mia attenzione.

- Per fare davvero una bella foto non si tratta solo di inquadrare un bel soggetto, ma di cogliere l’attimo, immortalare quello che c’è dietro l’immagine. Se parliamo di paesaggi bisogna giocare con la luce, beccare una nuvola in un momento particolare, l’inclinazione del sole, ma il bello, per me, è se parliamo di soggetti animati: la fatica di un muratore, il salto di un cane, il momento esatto in cui il piede impatta sul pallone. Per fare queste foto non c’è macchina digitale che tenga, non ancora, e forse mai ci sarà.

Tutte queste cose dietro una fotografia? Non ci avevo mai pensato, di certo non l’avevo colto dagli scatti sempre uguali delle nostre vacanze, ma qualcosa si era aperto dentro il mio animo inquieto. Su indicazione di Mirco detto Lillo ero andato a parlare con Luciano Gioia, quello di Foto Gioia. Teneva corsi di fotografia gratuiti per il primo mese e per quel mese ti prestava pure l’attrezzatura. Se fosse tornato a non fregarmene niente, niente avevo speso.

Quando Luciano Gioia mi parlava di fotografia sembrava facesse catechesi. Tra le altre cose, io non ero esattamente un estimatore degli enti religiosi - per dirla con un giro di parole - non lo ero mai stato.

- Parietti, non sei del tutto una capra.

- Questo me l’hanno già detto.

- Sì, però stai zitto. Quello che voglio dire è che sembri un cinghiale e forse ti piace dare questa immagine di te, ma hai qualcosa di umano dentro che è più solido di quel che pensi.

- Scusa Luciano, ma cosa c’entra con la fotografia?

- C’entra, perché tu fino a oggi è come se avessi vissuto sottoesposto. Se dai poca esposizione alla pellicola questa non prende i colori, resta sciapa. E tu sei sciapo, ma non capra.

- Se andassimo avanti e questo concetto sottile lo dessimo per assodato?

- Hai sempre guardato le cose con poca attenzione, e non ti sei accorto che dove c’è ombra, c’è anche luce.

- Perdonami Luciano, ma fino a qui ci arrivavo.

- Voglio sperare. Ma dove c’è ombra e buio, tu vedi solo quello, buio.

- In mancanza di occhi felini…

- Vuoi stare zitto accidenti? Anche nel buio, invece, ci può essere un cambio di luce. Più buio e meno buio, sono una variazione. Se spegni la luce e chiudi le imposte di una stanza in un primo momento vedi solo buio, ma dopo un poco abitui i tuoi occhi e inizi a scorgere il profilo delle cose.

Insomma, sembrava che Luciano Gioia di foto Gioia, tra un consiglio sull’uso dell’otturatore e un altro sulla duttilità della fotografia digitale, si fosse messo a impartirmi lezioni di vita. Diceva che ogni individuo è illuminato, in ognuno c’è un talento, e diceva che questo talento non va sprecato. Questo - ho scoperto in seguito - lo diceva già Matteo in un passo del suo vangelo, mentre Luciano, dalla sua, continuava aggiungendo che con una buona macchina fotografica e tanta pazienza si possono fare fotografie anche in quasi assenza di luce.

- Non ci sono scatti impossibili, solo scatti difficili. La differenza la fa la macchina, ma soprattutto l’operatore. Dove la maggior parte della gente vede immondizia un fotografo può vedere un’opera d’arte, e se riesce a coglierla, a immortalarla, la rende fruibile all’umanità, e questo è un dono.

Sarà stato vero, se c’erano esseri umani che campavano di fotografia voleva dire che tanti altri apprezzavano quel dono e lo pagavano bene, ma io, concluso il mese di prova, avevo ringraziato Luciano Gioia di Foto Gioia e riconsegnato tutta l’attrezzatura. La sua passione, e Mirco di Via Andromeda detto Lillo, avevano iniziato a farmi vedere sotto una nuova luce l’arte della fotografia, ma questa non era diventata né il mio lavoro, né il mio grande amore. Nel frattempo, però, avevo terminato ragioneria, seppure con il minimo dei voti, e per tirare su due soldi in attesa di una vera occupazione ero andato un paio di mesi in negozio da mio padre. Tempo qualche anno e ho rilevato l’attività, e ancora adesso, il mio bel diploma in tasca, con soddisfazione faccio il barbiere. Non me l’ha imposto nessuno, l’ho fatto per scelta. Ero, e sono, contento, e posso dire che finalmente mi sento a fuoco, anche se non credo di essere un soggetto illuminato.

Mirco di Via Andromeda, detto Lillo, ha aperto un negozio di generi alimentari. Gli altri ragazzi della strada non li ho più visti. I quattro emarginati della scuola ancora meno. Ogni tanto faccio ancora un salto da Foto Gioia, dove Luciano dispensa la sua saggezza lenticolare. Continua a dire che il bravo fotografo non deve mai perdere la fiducia nella propria ispirazione anche quando sembra che non ci sia nulla da fotografare, quando per una giornata intera non gli è riuscito un solo scatto degno di nota, quando vede solo buio e ombre e contorni sfumati. - In quel buio. Dice, - il bravo fotografo sa trovare la propria luce e cogliere il momento, l’opera d’arte, l’animo pulsante del genere umano.

Continuo a non capire cosa vuole dire, ma sono sicuro che può aver ragione.

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Aprì gli occhi.

Buio.

Li richiuse.

Aveva male alla testa, caldo soffocante, distesa su qualcosa di rigido.

Aprì ancora gli occhi, niente. Li richiuse.

Provò a muovere le gambe lateralmente, lo spazio era poco, angusto, provò a flettere le ginocchia, che toccarono subito sulla superficie di legno.

Fece lo stesso, con le mani.

Spazio stretto, ridotte possibilità di movimento, aveva dolore alla testa, il caldo insopportabile.

Con le mani annaspò sulla superficie che la circondava.

Tigliosa, fibrosa, non levigata.

Era legno, era una cazzo di cassa di legno.

Uno spasmo, un sussulto e subito urtò le sponde che rimandarono un suono pieno.

Maggiore il movimento, maggiore il caldo e maggiore il senso di soffocamento.

Provò a calmarsi e respirare, ma l’aria già iniziava a essere viziata.

Iniziò a cercarsi addosso, non aveva la borsa con sé, provò a sentirsi i jeans, aveva qualcosa in tasca.

Portachiavi con piccola pila al led per centrare la serratura anche di notte.

Per l’angusto spazio era sufficiente.

Adesso aprire gli occhi aveva un senso, un terribile senso che avvalorava quello che le sensazioni tattili avevano già trasmesso al cervello.

Era una fottuta cassa di legno.

Un gran mal di testa era l’unica possibile risposta a qualsiasi domanda potesse vertere sul com’era finita in quel feretro, cosa aveva fatto per meritarselo e dove si trovava in quel momento.

Perse la pazienza e diede un pugno contro la parete di legno che aveva a poco più di un palmo dagli occhi, senza nemmeno poter caricare troppo il colpo, viste le ridotte distanze.

Un colpo pieno al quale rispose un rumore altrettanto carico, con la luce del led riuscì a vedere solamente un po’ di terra scorrere tra le assi e cadere sopra di lei.

Almeno aveva preso coscienza del fatto di essere stata seppellita viva.

Magra consolazione sapere qual era la verità, soprattutto sapere che la verità era quella.

Iniziò con foga e rabbia a colpire le sponde che la circondavano, prima lateralmente poi dinanzi a lei, con le mani, con i piedi e perfino con la testa che continuava a dolergli.

Niente.

Perse anche la presa sulla lampadina e ripiombò nel più completo buio.

Singhiozzò, sommessa, sentiva le calde lacrime scendergli lungo gli zigomi fino a finirgli dentro le orecchie.

Iniziò a respirare più forte, se doveva finire soffocata in quel modo, allora tanto valeva la pena affrettare i tempi, a che serviva tirarla tanto per le lunghe.

Però non voleva morire.

Urlò forte, più forte ancora, un urlo sgraziato e prolungato tanto da fargli male alle orecchie e sentirsi bruciare la gola.

Lo avrebbero dovuto sentire in capo al mondo.

Riprese fiato e poi lo trattenne.

In silenzio, in attesa, cercando di carpire anche il più piccolo rumore, il più piccolo movimento, un qualcosa cui aggrappare la sua voglia di non finire in quel modo.

Niente.

Riaccese la luce.

Nel rivedersi lunga in quella bara le salì il sangue al cervello, il piccolo portachiavi le fuggì di mano, ancora buio, perdendo la calma diede una testata sul pannello che aveva di fronte.

Sentì, o almeno le sembrò, per un attimo quel legno scricchiolare.

Sentì, allo stesso tempo, scenderle dalla fronte una scia calda, lenta e vischiosa.

Un sapore ferroso le aveva pervaso la bocca quando il rivolo di sangue le raggiunse le labbra.

A fatica si passò una mano sulla faccia, ma le orecchie avevano percepito quello scricchiolare e il cervello era concentrato solamente su quello.

Aveva trovato qualcosa alla quale appendere la sua speranza di sopravvivenza.

Brancolavano spasmodiche le mani alla ricerca del portachiavi, lo trovarono, accese la lampadina e la puntò dinanzi i suoi occhi.

Il legno sembrava pressoché intatto ma lei comunque quel rumore lo aveva percepito.

Tenendo la luce accesa con una mano, iniziò a riprendere a pugni la parete con l’altra, fino a farsi male, fino a risentire nuovamente quel rumore.

Non poteva essere un caso, non poteva essere una farneticazione del suo cervello, magari era un’asse difettosa, crepata, male ancorata al resto della struttura, non sarebbe stato il suo biglietto per uscire da quella situazione ma avrebbe potuto, anzi no, avrebbe dovuto continuare a tentare.

Era seppellita viva è vero ma riuscendo a togliere quell’asse la terra si sarebbe smossa, avrebbe lottato come una leonessa per riuscire a emergere dalla terra.

Poteva essere stata seppellita troppo in profondità, d’altra parte non riusciva a percepire alcun rumore all’esterno, eppure perché non provare? Quale alternativa valida poteva esserci?

Nessuno in quella bara poteva risponderle se non lei e lei non aveva altra speranza cui aggrapparsi.

Perse la presa sull’interruttore della pila, la riaccese, guardò il suo corpo allungato in quello spazio angusto.

Ogni cosa era illuminata in quella cassa da morto e ogni cosa era solo e soltanto lei.

Vedeva il suo petto riempirsi d’aria e svuotarsi, sollevando e abbassando quella maglietta sporca e sudata, le prudeva una gamba ma non arrivava a grattarsi, così iniziò a strofinarsi lungo il legno.

Iniziò con una chiave a incidere il legno davanti al suo viso, in maniera sempre più vigorosa, frenetica, disperata.

Una piccola scheggia si staccò.

Un segnale, una rivelazione, la riprova che una via di fuga era possibile.

Bastava quello per rianimarla, per rimetterla in rotta, per farla sospirare che forse la partita non era ancora terminata, che aveva ancora un’ultima mano da giocare e lei era disposta a tentare il tutto per tutto.

Ancora, ancora, sputando i trucioli che le arrivano in bocca.

Era rimasta un po’ contratta, non si era accorta che quella maledetta cassa era oltretutto più piccola della sua statura e non poteva stendere completamente le gambe.

Anche ora che era uscita da lì, le gambe le erano rimaste un po’ piegate.

Non aveva più quella sensazione di claustrofobia, intorno a lei non c’erano quelle anguste assi di legno che la tenevano prigioniera.

Su quelle tavole stavano tutti quanti i segni del suo dolore, della sua disperazione. I segni delle chiavi che cercavano di abbattere quell’ostacolo che la opprimeva e dopo le chiavi aveva lottato letteralmente con le unghie.

Erano spezzate, il sangue era raggrumato e sembrava uno strato di smalto messo grossolanamente.

Avevano trovato anche le chiavi, la pila attaccata aveva esaurito completamente la sua carica.

Ora era lì, nuda, non indossava più quella maglietta sporca e sudata che copriva quel petto che affannoso si gonfiava e si ritraeva alla ricerca di aria pulita, salubre, per far affluire ossigeno al cervello, per rimanere lucida, per rimanere vigile.

Distesa, immobile, con le braccia lungo i fianchi su quel tavolino gelido.

Palpebre alzate.

Una luce accecante puntata dritta in faccia.

Le bianche pareti, le sponde dei lettini in metallo, i ferri del dottore che esegue l’autopsia.

Ora ogni cosa è illuminata in quella stanza, ogni cosa oltre a lei.

Pubblicato in concorso

Discussione sulla verità tra Dante e Guido Cavalcanti1

Luogo Firenze.

Anno: intorno al 1290.

Scena: in una stanza di un'accademia poetica fiorentina.

Sono presenti alcuni studenti averroisti che iniziano una disputa e tenzone tra loro.

“Che cos'è la verità?” chiede uno studente ad un altro studente.

“Ciò che non è falso” risponde il secondo.

“E cosa sarebbe allora la falsità?” chiede di nuovo il primo.

”Ciò che non è vero.”

“Bravo per l'eleganza nel fuggir senza rispondere. Una definizione che rincorre l'altra e nessuna delle due veramente definita o spiegata nelle sue funzioni, qualità e substantia.”2 risponde contrariato il primo studente averroista.

“E quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” si difese il secondo studente averroista.

“Potevi rispondere che la verità è luce o allontanarsi dalle tenebre che ricoprono le menzogne, se proprio non avevi nulla di meglio da dire, ma questa è una domanda che ho posto io e non sono io che devo necessariamente rispondere a ciò.” rispose il primo studente averroista.

“E allora risponderò io.” si intromise Dante alzando il dito per inserirsi nella disputa e portarsi al centro della stanza.

“E io controbatterò volentieri su una questione così alta.” rispose Guido Cavalcanti alzando anch'egli il dito e portandosi al centro della stanza.

I due studenti averroisti, visti entrare nella discussione due maestri di punta dell'accademia, si ritirano in silenzio salutando con un cenno del capo ai bordi della stanza come spettatori.

“Quindi quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” chiese Cavalcanti a Dante.

“Le stesse funzioni e qualità che hanno Dio, gli Dei e i suoi prodotti che sono luce e chiarezza.” rispose Dante.

“Sarebbe a dire?” chiede Cavalcanti.

“Che la verità è un prodotto degli Dei o di qualcuno che tende ad avvicinarsi verso di loro.” risponde Dante.

“Qualcuno chi?” chiese Cavalcanti.

“Chiunque decida di tendere verso il vero.”

“”Questo implicherebbe che la menzogna sia un prodotto di Satana e demoni o di qualcuno che tende verso di loro.” controbatte Cavalcanti

“Niente di più vero, ma queste due cose sono i limiti estremi a cui qualcuno tende o può arrivare. In mezzo a questi due limiti, esiste tutta una gradazione e combinazioni di verità e menzogne, che crea il mondo popolato di figure e atteggiamenti veritieri o menzogneri, nel quale viviamo.” risponde Dante.

“Avete dato la definizione di Inferno e Paradiso Ser Dante.” rispose Cavalcanti.

“E anche quella di purgatorio se la guardate bene. Un giorno lo spiegherò meglio da qualche parte.” rispose Dante.

“Vero. Tra Dio e Satana risiede una zona intermedia di menzogne e verità che si potrebbe chiamare benissimo purgatorio come dicono i nuovi teologi3.

Ma il paradiso e inferno dove si troverebbero se la terra per come la percepiamo noi, agisce e si comporta come un immenso purgatorio animato da noi stessi?” chiese Cavalcanti.

“Il paradiso o l'inferno sono i luoghi di destinazione finale che indicano la strada che prenderà ciascuno di noi a secondo che faccia bene o male.” rispose Dante.

“Intendete dire le nostre anime?”

“Intendo dire noi. Noi siamo la nostra anima.”

“E i nostri corpi di carne cosa sarebbero allora?” chiese curioso Cavalcanti.

“Corpi materiali animati da noi stessi, con i quali ci muoviamo e interagiamo nella materia.” rispose Dante.

“E per ora, tornando a Dio e alla verità?” chiese Cavalcanti.

“Per ora si da il caso che per tendere verso Dio occorre essere sinceri e per allontanarsi da lui occorre essere menzogneri, e questo ha molto a che fare con la verità.” risponde Dante.

“Ma come può un uomo che per definizione non è Dio, tendere o avvicinarsi a Dio, che non è per definizione uomo né materia alcuna, ma un'essenza creatrice, che si trova ovunque uno vada?” chiese Cavalcanti.

“Perché essendo l'uomo figlio di Dio, è anch'egli un piccolo Dio che deve crescere, e visto che Dio è verità, anche l'uomo se vuol essere tale a suo padre, deve seguire tale via, se vuol crescere e raggiungere suo padre naturalmente.” risponde Dante.

“State confermando che siamo fatti della stessa essenza di Dio.”

“Vero, la verità viaggia con luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e l'amabile visione di Beatrice.” rispose Dante.

“Beatrice la vostra donna luminosa?” Chiese cavalcanti.

“Beatrice colei che dà e concede beatitudine.” rispose Dante

Appena udite queste parole, interviene interrompendo il dialogo, uno degli studenti averroisti, molto incuriosito e interessato da quanto dante aveva appena detto.

“ISTANZA4, Ser Dante.” intervenne ad alta voce uno studente alzando la mano.

“Ditemi.” rispose Dante.

“Costei è un essere vero e reale o è solo una visione luminosa vostra ser Dante?” chiese lo studente.

“Questi sono fatti confidenziali miei, simili a molti di quelli che capitarono a diversi trovatori provenzali, che ho già spiegato e mostrato al qui presente Guido Cavalcanti e ad altri amici rimatori di quest'accademia, che hanno visto e vissuto fatti simili ai miei, e mi sono qui testimoni in questo momento.”

“Vorreste spiegarli meglio anche a noi Ser Dante?” chiese lo studente.

“No, non intendo spiegare a chi non ha vissuto o provate personalmente queste cose, perché occorrerebbe tentare di spiegare e definire a parole, cose che uno non ha mai visto o sperimentato, oltre a dover definire diversi altri termini come vita, Dio, Dei, spiriti, anime e altro, che richiederebbero discussioni e spiegazioni ben più lunghe di questa.” rispose Dante allo studente averroista fermando sul nascere una digressione troppo ampia che avrebbe portato molto lontano dalla disputa iniziale.

Interviene pure Guido Cavalcanti verso lo studente averroista.

“Vero. Io come molti altri poeti stilnovisti di quest'accademia, sono testimone di quando appena udito, e confermo che Ser Dante ha mostrato e spiegato nei dettagli a me e ad altri cosa sia e come sia fatta Beatrice, e vi posso dire che non è cosa che tutti possano comprendere senza vedere, e vedere senza apprendere in un'istante chi o cosa possa essere costei.“

Lo studente abbassò la mano e fece con un cenno del capo e un invito a continuare la discussione tra loro.

LA DISCUSSIONE SULLA VERITÀ RIPRENDE TRA DANTE E CAVALCANTI

“Avete detto poc'anzi, che la verità viaggia assieme a luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e amabile visione di Beatrice, ossia colei che da beatitudine. Giusto ser Dante?”

“Giusto.” confermò Dante

“Ora da quanto detto sopra sembra che stiate descrivendo le qualità della luce pura che hanno le pietre filosofali, e degli spiriti superiori che diventano visibili sotto la luce pura di quelle pietre5, come dicono filosofi e alchimisti, Ser Dante.”

“E cos'altro potrebbero essere queste cose, se non prodotti e opera di Dei decaduti e caduti sulla terra?” rispose Dante.

“Dei decaduti e caduti sulla terra per quale motivo?” chiese Cavalcanti.

“Per essersi allontanati dalla verità. Costoro hanno perso potere e sono finiti a vagare sulla terra, dove un dì sperano di tornare potenti come una volta.”

“Ma questo introduce il politeismo di tipo cataro dei perfetti provenzali6.”

“Questo non introduce nulla di nuovo, poiché il Dio unico è sempre quello. Caso mai spiega che gli Dei furono scacciati dal Dio unico, persero potere per essersi allontanati dalla verità e finirono sulla terra come seguaci di Lucifero, dove forse stanno tuttora. Gli Dei esistevano anche prima che il Dio rimanesse unico e solo.” rispose Dante.

“E perché allora costoro non sono più in cielo?”

“Forse perché si allontanarono dalla verità e si misero a tradire la loro missione che era creare ordine nell'universo come un astronomo può ben osservare nei movimenti regolari del cielo, e finirono per creare caos e disordine qui sulla terra, come chiunque veda una guerra tra uomini e il suo campo di battaglia.” rispose Dante.

“Tutto questo è interessante come discussione filosofica, ma dovreste provare a dirlo con l'inquisizione che sta distruggendo i perfetti catari per aver sostenuto cose simili.”

“Non so spiegarvi perché i perfetti catari vengano perseguiti, ma la nostra tradizione dice che i demoni furono seguaci di Lucifero che finirono puniti sulla terra, e se vi piace cercare la verità delle cose, anche l'inquisizione potrebbe essere un loro frutto finiti sulla terra.

Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore Dai loro frutti conoscerai il loro Dio. Ricordate questi versi del vangelo?”

“E allora in ultima analisi, che cos'è la verità? chiese Cavalcanti.

“È qualcosa per cui siamo stati fatti, e si trova ovunque tu vada?”

“Come Dio? Anche lui è ovunque tu vada?” chiese Cavalcanti.

“Sì, ma la verità non ti sta guardando, né seguendo. Sei tu.”

“Io?” rispose un po' spiazzato Cavalcanti

“Sì. Tu e chiunque altro sia vivo. Tu sei verità e scacci o attiri menzogne, quando ti allontani o avvicini ad esse.”

“E Dio?” chiese Cavalcanti.

“Anche lui è in te ed è fatto di luce e verità.” rispose Dante.

“Ma allora chi siamo noi?”

“Esseri spirituali decaduti e finiti nella materia.” continuò deciso Dante.

“E di che cosa sono fatti i nostri spiriti?” chiese curioso Cavalcanti.

“Siamo fatti come il cielo e le stelle, della stessa sostanza luminosa degli Dei.

E da qui in poi non mi chiedere altro, perché io non ti dirò più altro.” concluse il discorso e si ritirò in silenzio Dante.

1Guido Cavalcanti, poeta fiorentino del '200 amico di Dante. All'epoca Dante e Cavalcanti erano entrambi esponenti di spicco dello stilnovismo italiano.

2Substantia - Sostanza, letteralmente ciò che sta sotto a qualcosa.

3Il concetto di purgatorio, pochi anni prima di Dante, ancora non esisteva ed era stato appena introdotto da pochi anni come verità teologica.

4Istanza- Letteralmente In-Stantia - Stiamo in questa stanza o luogo.

5Le pietre filosofali erano pietre preziose tagliate a prisma, che scindevano la luce nei colori dell'arcobaleno, e molti alchimisti e filosofi osservando quel fenomeno nuovo per l'epoca, credevano che quelle pietre fossero state lasciate cadere dagli Dei sulla terra, e avessero proprietà superiori tutte ancora da scoprire. (N.d.A.)

6I catari erano fedeli di un'eresia proibita e perseguitata in Provenza nel periodo di Dante, che tramite la conoscenza spirituale, potevano diventare perfetti, e si facevano chiamare con tale nome coloro che raggiungevano tale stato..

Pubblicato in concorso