Forse hanno preso l’ultimo caffè assieme. Si sono salutati e poi si sono infilati nella folla di sconosciuti che a volte circonda gli addii. E ora ciascuno se ne va per la sua strada, con l’inquietudine di chi non sa stare da solo, ma con la consapevolezza che devono anche smetterla di perdersi l’uno per l’altra.

Luca: Segue la scia della gente nel dedalo di strade che si incrociano oblique. Con lo sguardo fruga nei visi delle persone per andare al di là delle apparenze, alla ricerca di un segno che lo faccia risalire dal baratro in cui gli pare di essere precipitato. Ma i volti che gli scorrono accanto sono impenetrabili, macchie dai contorni sfumati. Ora sa che le occasioni, così come si creano, si perdono, e questa certezza gli si rivela con dolorosa chiarezza. A volte si rimane in bilico, nella consapevolezza di essere diverso dall’altro, ma anche uguale. Lui ha sempre vissuto così, attratto eppure spaventato dal contatto con chi gli stava attorno. E a volte perfino da se stesso. Il fatto è che si è diversi pure da come si era un attimo prima, si cambia senza neanche rendersene conto. Se solo ci fossero specchi per l’anima per seguirne in tempo reale i mutamenti.

Gloria: Si cambia, eccome. Il cambiamento inesorabile di gente che finisce per sfiorarsi senza vedersi, senza capirsi, senza neppure provare a riconoscersi. Non più. Gloria è rimasta ferma per un istante sul bordo del marciapiede, a osservarlo mentre si allontanava, poi ha attraversato la strada per entrare nei grandi magazzini, confondendosi nella massa dei clienti che a quest'ora si muovono curiosi e indolenti tra gli stand. Assimilarsi alla folla, in fondo, è quello che vuole davvero in questo momento, le costerebbe troppa fatica e troppo impegno distinguersi dalle tante anime perse che si aggirano in questo luogo di caotiche ed effimere sicurezze, e rischiare di riconoscere tra le altre la sua.

Luca: Si toglie giacca e cravatta, e avverte la stessa sensazione che proverebbe se gli avessero tolto una camicia di forza. È quasi come tornare a respirare dopo essere stato in apnea. Con la coda dell’occhio ha visto Gloria infilarsi nella porta girevole del negozio. La segue. D’istinto cerca di mimetizzarsi nella moltitudine che lo circonda, per poterla pedinare da lontano in quella babele di gente. Ma troppe cose lo distraggono: oggetti, luci, signore, ragazzine, commesse, famiglie. Per un po' riesce a distinguerla, anche se è distante, ma non vuole essere notato. Si ferma a uno stand al primo piano e acquista un maglione rosso; si fa togliere l’etichetta, paga alla svelta e se lo butta sulle spalle, senza indossarlo. Infila la giacca e la cravatta nella busta che la ragazza alla cassa gli dà assieme allo scontrino. La cerca di nuovo nella confusione, ma non la vede più. Chissà se è ancora lì, si chiede.

«Sia cortese, me dia una mano, non riesco a trovare la misura delle canottiere de cotone per mio marito». È una donna florida e piacente, che gli si para davanti con un mezzo sorriso.

Gloria: Le scale mobili, quasi una metafora della vita - gente che sale, gente che scende, persone che si guardano di sfuggita senza vedersi davvero. Poi c'è sempre chi ha più fretta degli altri e ti spinge da una parte per farsi largo. Però... Riflette su queste inezie quando, dall’alto della scala mobile che scende dal reparto dell’abbigliamento femminile, vede una strana coppia in quello della biancheria maschile, al piano inferiore. La donna, grassoccia e dall'aria gioviale, sta misurando una canottiera di quelle che non usa quasi più nessuno, bianca, senza maniche e scollata, sul busto di un uomo dall'aria familiare. Non può essere lui: lo ha visto dirigersi verso il labirinto di viuzze, e poi era vestito in modo diverso, portava quella che è diventata la sua divisa da lavoro: completo grigio scuro, camicia azzurra e cravatta, non sempre dello stesso colore, ma rigorosamente regimental. Quel maglione non lo aveva mai visto. Rosso, poi. Risalta nel grigiore dell’ambiente, dall’arredo impersonale e minimalista, ed è una nota quasi eccentrica, fuori luogo. No, Luca porta sempre colori che lo aiutino a mimetizzarsi, non può essere lui.  Forse è soltanto un cliente che gli somiglia molto. Forse.

Luca: Dopo l’acquisto estemporaneo torna a confondersi fra la folla a cui prova a conformarsi, cercando di fare le stesse cose che fanno gli altri, a guardare cose di cui a lui è sempre interessato meno di niente. Ma è per comprare che si va ai grandi magazzini, e allora lui compra e guarda comprare. E continua a cercare con gli occhi quella che fino a qualche minuto prima era ancora la sua donna. Non si accorge che la scala mobile è arrivata al piano e inciampa, finendo lungo disteso per terra, senza scampo. Crolla sul gomito già malandato a causa di una brutta caduta da cavallo di qualche anno prima, non riesce a trattenere un grido di dolore.

Gloria: Davanti a lei ci sono un ragazzo e una ragazza in tuta e scarpe da ginnastica: hanno l’aria stanca e distesa che si ha dopo aver svolto un’attività fisica. Devono essere andati a correre nel parco, non lontano dal centro. Anche lei una volta si allenava con regolarità: ai tempi dell'università partecipava anche a qualche gara. Poi era arrivato lui e, a poco a poco, l'aveva distolta da tutti i suoi interessi. Quasi tutti. Le era rimasto il cinema: spesso nelle ore pomeridiane, con la scusa della spesa, se ne andava via di casa da sola e passava il tempo dentro una sala a vedersi l'ultimo film uscito. Quando aveva capito che starsene per conto suo, in un cinema spesso vuoto, di pomeriggio, era un modo per evadere dalla vita con lui, aveva iniziato a maturare l'idea di lasciarlo. Questa ossessione si era insinuata con prepotenza nella sua testa, come un tarlo ostinato e incontrollabile, finché aveva penetrato ogni fibra del suo cervello, e allontanarsi da quella casa e da quell'uomo era diventato un assillo, un chiodo fisso.

«Signora mia, ma che è successo? Guardi ‘npo' là quanta gente! E che sarà mai?», è la signora grassoccia che ha visto poco prima con l’uomo del maglione.

«Non saprei, ho sentito che chiamavano l'ambulanza, forse qualcuno si è sentito male.»

«Eh, nun se pò mai stà tranquilli, e che te pare?!», e nel dirlo scuote la testa piena di ricci rossi di henné.

Intanto gli addetti alla vigilanza stanno aiutando qualcuno ad alzarsi. È Luca.

«Ah signò, ma io quello lo conosco! 'n signore tanto ammodo, je parlavo proprio n’attimo fa!»

«Ah sì? Chissà cosa è stato…», pronuncia queste parole con tono neutro, attenta a non tradire alcuna emozione.

«Ma che ne so!? Ma guarda che je doveva capità, porello. Però io vado a véde. Magari je serve ‘na mano…»

Lei rimane in disparte, ha cura di non farsi notare da lui. Tanto se la caverà. E intravede che barcolla, mentre i vigilantes chiedono spiegazioni; un fazzoletto spuntato dalla tasca di una commessa gli tampona il sangue sulla fronte: deve essersi ferito cadendo.

Poi lo perde di vista, è nascosto da un capannello di gente. L’istinto sarebbe quello di andare lì, di non lasciarlo da solo, di soccorrerlo, ma si trattiene. «Ce la farà, deve farcela. Lasciarmi coinvolgere proprio adesso no, non adesso …». Lo sa, poi si darà della codarda, magari anche della cinica, ma volterà pagina, dimenticherà anche questo sapore di irrealtà. Sia quello che sia, rimane al coperto.

Torna la signora dai capelli rossi, emozionata, affannata, col seno debordante che sembra scoppiare dentro la giacca attillata.

«Porello! Nun ce se crede! La faccia piena de sangue. Ma che je sarà capitato?! Se sarà sentito male!».

Lo accompagnano all’ambulanza, che nel frattempo è arrivata. Lei lo scorge di spalle, il compagno con cui ha condiviso amore, sogni, speranze, tempo, lavoro, liti, sacrifici, noia; un uomo forte e debole, normale, uno come tanti, una brava persona, mediocre, a volte speciale, comune, egoista, sì, proprio uno come tanti, consumato dalla vita. Come lei, in fondo. Ma un uomo con cui le fa paura invecchiare.

Lascia che tutto le scorra davanti, il peggio è passato, lui ormai è sull’ambulanza. Resta qualcuno della direzione. «Tranquilli, non è successo niente. Un piccolo incidente, ora è tutto a posto.».

Lei si avvia verso l’uscita. Prova sollievo nel ritrovarsi all’aperto, tra la solita gente che affolla le vie, ordinaria, consueta. Cerca di cancellare dalla pellicola della mente le immagini che vi si sono appena impresse, la scena di qualche attimo prima, per tornare a concentrarsi su di sé. Attraversa la strada e si ferma di fronte al bar del loro ultimo incontro. Pesca il cellulare nella borsa e cerca il numero in rubrica: «Radiotaxi? Sono al bar del Corso, vicino ai grandi magazzini.».

Non entra di nuovo nel locale, si limita a guardarlo da fuori. Nessuna nostalgia. Solo poco più di mezz’ora prima erano stati lì insieme, lui con la sua aria di sufficienza da professionista affermato, e lei con il tailleur d’ordinanza e la solita grande borsa sulla spalla, piena di tutti gli oggetti che sono un po’ il riassunto della sua vita; lei con l’aria di una donna senza più rinunce, a vivere quello che doveva essere un saluto o un addio, pieno di cose non dette e tenute in fondo al cuore, di spiegazioni non date, e rese tuttavia palesi dalla familiarità. Anche se resta sempre qualcosa da spiegare, si arriva comunque, in modo ineludibile, al punto in cui non serve più parlare, perché ogni parola diventa fumosa, una falsa pista, una frettolosa menzogna.

Sembra passato un tempo infinito. Una parte del suo percorso, diventato ormai troppo arduo e tortuoso, è alle spalle. Davanti s’intravede un sentiero nuovo, di sicuro incerto, nebuloso, ma è lì che aspetta di essere battuto.

Il taxi è arrivato, è in attesa vicino al marciapiede: lei vi sale senza guardarsi attorno. I suoi bagagli sono già al deposito.

Allo sguardo interrogativo del tassista, con voce ferma, senza ombra di esitazione, comunica decisa: «Alla stazione.».

- Inizia nel mese di luglio la campagna tesseramento 2016 dell’associazione Rat Rescue Italia che nasce nel 2013 per far fronte all’aumento di cessioni e abbandoni di ratti domestici.
L’organizzazione è no-profit e va da sé che ogni donazione sia molto importante.
Per seguire le loro attività potete mettere il like all’omonima pagina facebook, oppure visitare il sito.

- Se sabato 2 luglio siete dalle parti di Torino e vi piacciono i cani, potreste pensare di partecipare al secondo “Dog Summer Day”, ovvero una camminata a 6 zampe di sensibilizzazione contro l’abbandono estivo.
Il ritrovo è alle 16 in piazza Zara e la passeggiata si snoderà lungo i viali del Valentino.
L’evento è organizzato da Animal Renegades.
Qui il link.

- Sempre sabato 2 luglio la L.A.V. (Lega Anti Vivisezione) di Asti organizza un aperitivo vegano accompagnato dalla musica dei Collectif Manouche all’Irish Pub “Jack Madden” (Corso Felice Cavallotti, 64, Asti AT).

Il costo è di 12 euro di cui 5 verranno devoluti all’associazione per le cure degli animali sul territorio.
Qui il link all’evento.

- Lunedì 4 luglio dalle 19,30 l’associazione “Le sfigatte” organizza una apericena vegana presso il ristorante “L’Orto già salsamentario” a Torino in Via Monferrato 14/A (Il costo è di 15euro ed è necessaria la prenotazione a questo indirizzo.
- Mercoledì 6 luglio alle 20,15 presso la pizzeria “Vesuvio” di Moncalieri (Via Cavour, 94, 10024 Moncalieri TO), ci sarà una apericena vegana a favore del BASTA CORRIDA VEG TOUR 2016.
Il costo è di 13euro e il ricavato andrà ad aiutare le associazioni spagnole “Ayandena” di Sevilla e il rifugio “San Jorge” di Caceres che si occupano dell’adozione di cani destinati alle perreras (canili spagnoli in cui però, a differenza che in Italia, i cani vengono soppressi se dopo poche settimane non vengono adottati) e di altri randagi.
Ecco i siti delle associazioni spagnole: sito1 - sito2

L’idea del tour, che parte da Torino, passando per Francia e Spagna, nasce da Paolo Barbon, un ciclista vegano torinese che da un paio di anni, ogni estate, percorre più di 2700 Km in bicicletta come manifesto contro la corrida e contro le perreras. In ogni città in cui fa tappa si tengono manifestazioni in collaborazione con gli attivisti locali e le associazione di protezione animale francesi e spagnole.

Qui la sua pagina facebook.

- Venerdì 8 luglio dalle ore 20 la gastronomia vegana “Sale in Zucca” (Via Santa Chiara, 45/h, 10122 Torino), festeggia i suoi primi 5 anni di attività e vi aspetta con un ricco menù a 13euro e uno sconto del 10% sui prodotti che vorrete acquistare. Dovete prenotare obbligatoriamente entro il 5 luglio mandando una mail a questo indirizzo o telefonando allo 011-5794968.
Se volete curiosare tra i menù proposti e le novità in vendita potete andare sul loro sito.

 Se fate parte di associazioni vegane o semplicemente volete segnalarci un evento potete inviarci una e-mail all' indirizzo: bachecavegana@jonaeditore.it

Serena Gualdieri viveva a Milano, aveva una vita come tantissime, fatta di lavoro, casa, amici e divertimento.
Oltre a quello c’erano gli animali. I suoi gatti, i suoi cani e l’amore per tutti. Il primo passo fu quello di condividere le ricerche per i cani in cerca di adozione. Quelli che per sentirci bene chiamiamo “trovatelli”, ma che prima di diventare tali sono stati “abbandonatelli” in qualche tangenziale o posto dimenticato o cercato di dimenticare da chi lo ha preso, da chi si si è fatto amare, da chi, in cambio, lo ha lasciato come si lascia un vestito troppo liso per continuare ad essere usato. Buttato via dopo aver postato le sue foto su tutti i social possibili, con tanti cuori a far vedere che lo si ama, con tanti like degli amici per farci sentire belle e buone persone.

Per fortuna, non tutte le persone sono belle e buone in quell’accezione. E così, la nostra Serena Gualdieri ha pensato che avrebbe dovuto occuparsene meglio, di più e con ogni sua risorsa. Ha preso armi, bagagli e animali ed è partita, destinazione Via delle Filande 5

Pontelandolfo, Benevento.

 

- Che cos’è “la casetta di scenù?

- un ponte tra la strada e l'adozione.

- In che senso?

- La gente abbandona i cani e, si spera, prima o poi qualcuno li accoglierà a casa sua. Da me possono aspettare quel momento sotto un tetto, un giardino, il cibo per mangiare e la compagnia di tanti altri cani per giocare.

- E come è nata l’idea di fare una casa accoglienza?

- Vivevo aMilano, seguivo le storie dei cani del sud (chi pensa che i cani abbiano problemi - e certamente ne hanno - al nord, dovrebbe venire a dare una occhiata al sud per capire in che condizioni brutali sono costretti a vivere se abbandonati, tra catene e canili lager) e pensavo che avrei fatto questo, ma non avevo in programma di tornare al sud.

- E poi?

- Per mille motivi e situazioni sono finita in un posto perfetto per questa mia idea. Come in quei film in cui si vede una persona in una scena, e fa cose che non vuole fare e poi, nella scena dopo la vedi nella casa dei suoi sogni. E fino a qualcuno non spiega come mai ci è finita lì, non riesci a capirlo. Ecco, a me non interessa più sapere il motivo, sono nel posto giusto per fare quello che voglio: aiutare gli animali che hanno bisogno, vivere con loro ed esserne ricompensata dal loro amore.

- Una meraviglia, insomma. E come fai a mantenere il posto? Ci saranno molte spese.

- Oltre ai cani in attesa di adozioni posso ospitare cani “in vacanza”. C’è molto verde e i cani stanno sempre liberi.

- In vacanza quando i padroni sono in vacanza, insomma.

- Sì, all’inizio non ero molto convinta di questo servizio, ma poi ho capito che è giusto che una famiglia possa andare una settimana a New York, per fare un esempio, senza dover causare stress al proprio animale. Loro si svagano, il cane viene da me e si diverte e fa nuove amicizie. E, oltre a questo, per la accoglienza attraverso i social ho amici che fanno piccole donazioni per aiutarmi a sostenere questo servizio.

- Bello.

- Sì, ci sono persone che hanno capito che “è tutto per i cani”, tutto il mio tempo, le mie energie, e pure il mio amore, tutto questo è la parte che faccio io, in questo mondo, per cercare di farli stare bene. E mi danno una mano.

 

Questa è la storia di Serena Gualdieri, storia che ha tutto il nostro appoggio, storia che ci fa pensare che esiste chi aiuta davvero gli animali bisognosi, senza bisogno di mettere cuori e cuoricini.

Questa la sua pagina facebook: casetta di scenu'

Qui la possibilità di fare una piccola donazione con paypal: aiutalacasetta

Il quarto contest di Jona Editore prende spunto dalle ultime parole in vita di Lev Tolstoj: "Svignarsela! Bisogna svignarsela!".

Le regole sono sempre le stesse, sono poche e semplici, quindi vi preghiamo di tenerne conto. Nelle prime edizioni abbiamo fatto passare titoli incompleti e altro, da adesso se non ci saranno queste piccoli condizioni i racconti saranno cestinati.

I racconti devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it
La lunghezza massima è di duemila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office.
Il titolo deve essere composto dal vostro nome e da "svignarsela bisogna svignarsela".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Scadenza: trenta giugno 2016.

Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Precisazione ridondante, in quanto i racconti devono essere scritti appositamente per il contest.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito. Sarà più semplice comunicare.

Cosa si vince?

I due vincitori (se i racconti inviati  saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it

A dicembre 2016 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.

«Si sta proprio bene qui, eh?!»

     Assorto com’è nei suoi pensieri non si è neanche accorto che qualcuno si è seduto vicino a lui sulla panca. È un uomo anziano, molto, con una giacca forse troppo pesante per la temperatura primaverile. In testa ha un basco blu, di quelli che portavano gli operai negli anni ’50, anche suo padre ne aveva uno. Gli occhiali non riescono a nascondere un occhio offeso, forse cieco, fisso e senza espressione. Gli ricorda qualcuno, ma non riesce a metterlo a fuoco tra le poche immagini della sua vita passata rimaste impresse nella memoria.

     «Buongiorno. Sì, si sta bene.», risponde un po’ scostante. Vorrebbe godersi quei momenti da solo, non vuole condividere con nessuno il grumo di sensazioni che gli è salito in gola da quando è arrivato in questo luogo.

     L’uomo lo scruta, come fanno a volte gli anziani, senza pudore e senza timore di creare imbarazzi, sembra deciso a capire con chi ha a che fare. Forse abita da queste parti, pensa lui, ma se anche fosse non può essere salito fin quassù a piedi, sono più di due chilometri da qui al paese, non ce l’avrebbe fatta.

     »Non ti ho mai visto qui. Sei un turista?», chiede curioso, con un tono di familiarità che lo spiazza. Non sa cosa rispondere. Turista? Dopo tanti anni magari sì, lo è, sebbene l’idea un po’ gli ripugni. D’altra parte non può neanche più pensare di appartenere a questo luogo. Qualcuno – una donna? - qualche tempo fa lo ha definito cittadino del mondo, e lui si è sentito lusingato. Ora l’espressione gli pare un po’ stupida. Incoerente. Straniante. Però non sa cosa rispondere.

     «Lei è di qui?», chiede di rimando, le parole escono in modo quasi involontario.

     «Sì. Abito giù in città, ma vengo qui quasi tutte le mattine a respirare aria buona.», risponde l’uomo con aria complice e un po’ compiaciuta. « Prendo il pullman proprio davanti a casa mia,» continua, «e passo un paio d’ore fuori dal mondo e dal traffico». Gesticola nel parlare, muove le mani in modo nervoso, a scatti. Lui ha ancora la strana impressione di averlo già visto, sente che non gli è del tutto estraneo.

     «È un bel posto, ci venivo spesso da bambino e da ragazzo.», dichiara, più per dare soddisfazione all’anziano compagno, imprevisto e inatteso, che perché ne abbia davvero voglia.

     «Ma allora sei proprio di qui! Dovrei saperlo chi sei! Conosco tutti in città, sai, col mio lavoro non immagini quanta ne ho vista di gente!». Nell’unico occhio capace d’espressione balenano in un istante nostalgia e rimpianto.

     «Ah sì? E che lavoro faceva?». Gli dà ancora del lei, lo sente che stona, in fondo neanche lui è più un ragazzo e il vecchio gli ha dato subito del tu. E poi si rende conto di non riuscire a infondere alle sue parole la benché minima traccia di calore, è rigido e distaccato tradisce il fastidio iniziale per l’irruzione dell’estraneo.

     «Avevo un’edicola all’inizio del quartiere Castello e, prima ancora, consegnavo i giornali a domicilio.», risponde pronto l’anziano, che sembra non rendersi affatto conto della sua freddezza.

   Era il quartiere dove abitava lui. Ora il ricordo affiora nitido: quest’uomo ha portato il giornale tutte le domeniche a suo padre per anni, loro abitavano al piano rialzato e suo padre prendeva il giornale e gli dava il denaro dalla finestra. E poi, da bambino prima e da adolescente poi, è nella sua edicola che lui ha comprato l’Intrepido per sé e La domenica del Corriere per suo padre, tutte le settimane.

     La pineta sarebbe la stessa, riflette sollevando lo sguardo, se non fosse per il chiosco proprio lì, accanto alla panchina su cui sedeva sempre per riposare dopo la passeggiata, e su cui è seduto anche adesso. Tornare in questa città, quasi cancellata dallo scorrere brutale degli anni, gli era sembrata la cosa giusta da fare per rimettere un po’ di tasselli in ordine e ridare alla propria vita la prospettiva giusta. Nell’ultimo viaggio a Monaco, durante una passeggiata con dei colleghi tedeschi nei boschi attorno alla città, a un certo punto gli era sembrato di essere proprio lì, tra quegli abeti, dove aveva passato tanto tempo da ragazzo, arrivandoci spesso anche a piedi, dopo aver lasciato la moto vicino alla stazione, per inerpicarsi lungo la Via Crucis che procedeva in salita fino a un chilometro circa dal bosco. Il pezzo più duro era proprio quel tratto di strada asfaltata, che doveva affrontare prima di buttarsi nel labirinto di sentieri che aveva imparato a conoscere così bene. Le prime passeggiate le aveva fatte con suo padre, da bambino: partivano a piedi, mentre sua madre e sua sorella andavano in pullman. Il luogo dove si fermavano per il picnic, sempre lo stesso, era un’area attrezzata dove a volte accendevano anche il fuoco per il barbecue. E, giunti in pineta, loro due sceglievano il tavolo migliore e lasciavano una tovaglia o uno zaino per segnalare che era occupato. Di ritorno dalla loro passeggiata trovavano la madre e la sorella che si organizzavano per il pranzo.

     Non ricorda neanche più l’ultima volta che è stato in questa città, che non sa più se è ancora la sua. Aveva quasi dimenticato di averne una. Dopo la laurea e i corsi di specializzazione era cominciato il suo peregrinare da un punto all’altro del mondo, che lo ha portato molto in alto nella professione, certo, ma, ora se ne rende conto, gli ha anche tolto molto. Più di quanto voglia ammettere. Conosce un numero incalcolabile di persone, ma poi, alla fine della giornata, è solo con se stesso e i suoi assilli: la sua rete di rapporti ruota intorno al lavoro, ma sul piano personale c’è il vuoto assoluto, un deserto in cui sa di essersi inoltrato in piena consapevolezza, ma da cui non sa più come uscire. Non riesce a farsi tornare in mente i motivi per cui ha perso i contatti con sua sorella, forse non ve ne sono: alla morte dei genitori, a un anno l’uno dall’altra, è stato come se si fosse spezzato l’unico legame che li teneva insieme. Lei ora vive con la sua famiglia in un paese qui vicino, si fanno gli auguri per le feste e i compleanni ma, se la incontrasse, forse stenterebbe anche a riconoscerla, si sa che il tempo cambia le persone: non si vedono da più di dieci anni. Dei suoi due nipoti, gli unici che abbia, conserva ritratti dai contorni sfocati, che risalgono ai tempi dei funerali dei nonni. Del cognato ricorda sì e no il nome. Si è sottoposto a un processo di straniamento graduale e forse irreversibile e, di colpo, sente di non appartenere a nessun luogo. Neanche a questo.

     Vorrebbe dire due parole di cortesia al vecchio giornalaio, ma quando si gira non c’è più: deve essersi alzato mentre lui si perdeva nel groviglio dei suoi pensieri. Alza lo sguardo e lo vede allontanarsi a passo lento, un po’ curvo, verso quella che sembra una fermata del pullman. C’è una panchina anche lì: si sorprende a pensare con sollievo che non dovrà aspettare in piedi, potrà sedersi. Suo padre ora avrebbe più o meno l’età di quest’uomo. Sarebbe fiero di lui quell’operaio orgoglioso che conosceva tutti i romanzi di Giovanni Verga e comprava il quotidiano solo la domenica perché gli altri giorni non aveva tempo per leggerlo. Sarebbe fiero del suo successo, si sentirebbe ripagato dei sacrifici. Ma non sa più dove andare a cercare neanche lui, perfino le sue tracce sono state cancellate dalla successione implacabile di stagioni smemorate.

     Si alza quasi senza rendersene conto e si avvia verso l’auto parcheggiata più in là. Si prepara a rientrare nella sua vita di sempre, un’esistenza appesa al filo inconsistente di un’identità precaria, l’unica che ha, adesso. Se in autostrada non c’è troppo traffico forse stasera potrà usare i due biglietti del teatro che gli hanno regalato. Gli basterà cercare un nome nella rubrica per trovare qualcuna con cui condividerli, si tratta di una commedia di Neil Simon, è sicuro che non sarà difficile.

-Che mal di testa atroce-pensai intento nello svegliarmi e alzarmi di malavoglia da quello che mia mente. Ieri sera ero andato alla festa della mia attuale azienda per cui lavoro: una misera struttura in cemento a quattro piani di cui i primi erano occupati da degli squallidi e insulsi uffici. I miei colleghi, se così posso definirli, erano mediocri e banali tanto quanto lo erano le loro vite: classici padri o madri di famiglia che si spaccavano la schiena tutti i giorni al fine di portare a casa la pagnotta e offrire una “vita felice e spensierata”ai figli.

Quella sera, il nostro capo aveva deciso (in uno sprazzo di sua generosità improvvisa) di organizzare una festa,per celebrare l'avvenire delle ferie. Ricordo ancora le quantità spropositate di cibo accumulate sulle scrivanie, fiumi di alcol che fuoriuscivano dalle bottiglie di chissà quali spumanti scadenti appena comprati in un supermercato della zona, e gli uomini che                             doveva essere stato prima il mio letto. Ma cosa era successo ieri sera?Ah si ora ricordo. Mentre mi dirigevo in cucina, un violento flusso di immagini,suoni e voci occupò letteralmente la non facevano altro che rimorchiare le colleghe. L'unico momento in cui potei affermare di essermi divertito fu quando rividi lei, Charlotte. Era stata una mia ex collega durante il periodo dello stage universitario, venne licenziata perché il capo scoprì la nostra relazione, chiaramente una clausola aziendale vietata dal medesimo contratto di lavoro.

Quella sera era davvero stupenda: la sua chioma dorata era raccolta in una treccia, il suo fisico snello e asciutto era avvolto da un vestitino rosso sgargiante; su un'altra ragazza sarebbe risultato volgare ma su di lei era perfetto,quasi come se fosse stato realizzato su misura. Il suo viso era radioso, valorizzato solo da un po' di mascara e un tocco di lucidalabbra e ai piedi portava dei tacchi non esageratamente alti del medesimo coloro del vestito.

Devo essere sincero, avrei voluto passare tutta la notte con lei ma finii solo per bere litri e litri di spumante e tornarmene a casa solo. Non avevo propria voglia di compagnia quel giorno.

Mentre il caffè stava salendo all'interno della moka, presi un'aspirina e nel frattempo ammirai la pioggia che batteva contro i vetri. Gocce infinite si scagliavano sul paesaggio come proiettili,sembrava quasi volessero far sciogliere i colori della città come se fosse un quadro di acquarelli.

Pioveva anche durante il funerale. L'anno scorso,morto mio padre,dovetti occuparmi dei preparativi del funerale,sebbene non avessi tutta questa gran volontà. Quel giorno diluviava a dirotto,per fortuna mia madre aveva scelto di far cremare il corpo per cui ci ritrovammo nella cappella del Père-Lachaise ad assistere al rito. Francamente, non mi sforzai nemmeno nel vestirmi in maniera elegante. Perché fare bella figura per un morto?Ma soprattutto perché farlo per un uomo che non si è mai comportato da padre e da marito?Avevo optato per una semplice giacca nera con camicia abbinata,jeans sbiaditi e delle scarpe scure. Mia madre, a malincuore, mi lasciò prima del dovuto a causa di un brutto male. Ricordo ancora il prete che pronunciava una litania sull'ascesa di Mario Curatti alla Casa del Signore e l'odore nauseante dell'incenso che mi pervadeva le narici,provocandomi un senso di nausea. Mario Curatti era un immigrato italiano. Si trasferì dalla città di Bologna per continuare nella sua attività di calzolaio. Durante il periodo di una calda e soleggiata estate parigina, conobbe mia madre la quale si innamorò delle maniere gentili e amorevoli di quello stupendo straniero. Sfortunatamente, la vita non è una favola e ben presto mia madre se ne rese conto;mio padre non si presentò mai a nessuno degli eventi più importanti della mia vita. Si perse ogni mio compleanno, festeggiamenti di diploma e laurea e, dolcis in fundo, tradì mia madre con molte donne.

Ridendo, però, pensai che nonostante io avessi speso tutte le mie energie ad odiarlo alla fine mi ero trasformato nel mostro in cui era stato pure lui. Avevo avuto delle amanti, ma con Charlotte era diverso. È vero, lei voleva approfondire il nostro rapporto ma io non me la sono mai sentita di legarmi completamente a lei. Forse perché avevo semplicemente paura di farla soffrire come fece mio padre con mia madre. O forse no?

Dopo la cerimonia, Charlotte si era presentata sotto ad un enorme ombrello nero che si intonava alla perfezione con il lungo vestito che sbucava da sotto l'impermeabile chiaro. I capelli erano raccolti in uno chignon. Sembrava un angelo dalle fattezze umane. Venne verso di me tenendo in una mano l'ombrello e dall'altra un pacchetto.

Con tono sarcastico le dissi: “Ah questo è un bel modo per celebrare la dipartita di mio padre”

“Non scherzare, ti ho fatto questo regalo perché so che potrebbe aiutarti.”

“Mi spiace. Non sono dell'umore per ringraziare un atto di compassione.” dissi in maniera sincera

“Non ti preoccupare”affermò avvicinandosi sempre di più a me. Si mise in punta di piedi, mi accarezzò una guancia e mi posò un lieve bacio sulle labbra. Adoravo il suo profumo fruttato,niente a che vedere con l'incenso di prima.

“Vieni a casa con me. Ho davvero bisogno di avere qualcuno accanto adesso”

     “Jean...non lo so”

“Ti prego” e guardandomi con i suoi grandi occhi azzurri, annuì esclamando solamente “va bene”.

Arrivati alla mia macchina, salimmo sopra di essa e in pochi secondi ci ritrovammo a sfrecciare sull'asfalto come ad una gara di auto da corsa. Giunti nel mio appartamento,non riuscii più a controllare i miei istinti. Avevo bisogno di sentire il suo calore.La presi per un polso e la trascinai in camera mia, le sciolsi lo chignon e,mentre la baciavo come un ossesso, le tolsi l'impermeabile e il vestito. Se ripenso ancora a quell'episodio, mi sembra di risentire i suoi gemiti. Lasciandola sul letto inerme e senza vestita, potei ammirare la perfezione del suo corpo: i seni non troppo grandi erano in armonia con il resto della sua fisicità minuta e il candore della sua carnagione la faceva apparire ancora più eterea. Mi sentivo quasi in colpa nel profanare quella splendida creatura ma, fu lei a farmi accogliere tra le sue braccia. Facemmo l'amore per tutto il pomeriggio; sentii Charlotte raccogliere da terra il pacchetto che prima, nel momento della piena passione, avevo scaraventato sul pavimento della camera.

“Non vuoi aprirlo?”mi domandò curiosa

“Certo,se mi dici che possa aiutarmi”strappai la carta e con mio stupore mi accorsi che era Lo Straniero di Albert Camus.

“Incredibile, tu si che mi conosci bene”dissi rivolgendomi a Charlotte sorridendole

“Forse,potrà farti riflettere.”

Riflettere. Riflettere su cosa?Sul fatto che la mia vita è patetica tanto quanto quella di qualsiasi altro essere umano?Mentre stavo seduto al tavolo a sorseggiare il caffè, avvicinai il libro che avevo lasciato sul tavolo davanti a me. L'avevo finito ormai. Charlotte aveva ragione, dovevo riflettere su me stesso e,grazie alla dettagliata descrizione di Camus, capii che io e Meursault non eravamo poi così diversi. Ciò che mi colpì di più, fu l'ultimo capitolo in particolare l'ultima frase. Presi il libro e lo aprii all'ultima pagina, avevo sottolineato la frase affinché fungesse da promemoria:”Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”. Nonostante sapeva che sarebbe morto, Meursalt rimaneva sempre indifferente alla possibile reazione della gente e, anzi, sperava che venisse accolto con il loro odio. Probabilmente era su questo che Charlotte voleva che riflettessi, ma come si può cambiare un pensiero?Certamente, se mi fossi deciso ad auto-psicanalizzarmi ma sinceramente non ne avevo intenzione. Non mi importava come Meursalt se Charlotte si fosse improvvisamente innamorata di qualcun altro o se ad esempio dopo quella giornata piovosa sarebbe tornato il sole.

Richiusi il libro e, finendo di sorseggiare la bevanda calda e scura, mi limitai ad osservare la pioggia che cadeva. In maniera del tutto indifferente.

Nessuna emozione, nessun batticuore, nessun coinvolgimento in alcunché. Nessun sussulto, nessuna gioia e nessun dispiacere.
Un lavoro che non amo, che non mi sarei mai sognato di fare, che non mi da nessun problema e che mi impegna poco ma che toglie dignità alla stessa parola “lavoro”, tanto è monotono, ripetitivo e sterile.
Nessuna attività, niente sport, nessun divertimento. Poca vita sociale e solo ambienti monotoni e poco frequentati. Rapporti interpersonali limitati a poche persone per le quali ormai provo solo… odio? Non posso permettermelo. Indifferenza.
Donne, mai.
Non sono l’unico, vi starete dicendo, tante persone che conoscete vivono certamente una vita così e nonostante tutto tirano avanti con rassegnazione e dignità. Certo.
Possono combatterla però, sperare nel futuro o concedersi una saltuaria e fugace via di scampo.
Io no.
Ma non è stato sempre così, anch’io ho visto giorni migliori.
Ottimismo e gioia di vivere sono state le mie compagne fino ai trent’anni, e la vita è stata buona con me, fino ad allora almeno, e guardandomi intorno mi ritenevo persino fortunato, arrivando talvolta a vergognarmi un poco, tanto le cose mi andavano schifosamente bene.
E poi.
Poi ho donato il mio cuore ad una donna.
Mi era già capitato di innamorarmi ma questa volta ero sicuro di aver trovato quella giusta. E che sarebbe durata per sempre.
Ero sicuro che sarebbe stata la madre dei miei figli, volevo che lo fosse.
Eravamo una coppia strana, noi due. Io, lo straniero, alto e forte, sorridente, un po’ orso e un po’ buffone. Lei minuta, di un pallore lunare, gracile e indifesa, anche nello sguardo.
Malformazione cardiaca congenita.
Le era stata diagnosticata nella prima infanzia ed aveva segnato tutta la sua esistenza, impedendole sin da bambina di vivere una vita normale. Con gli anni si era addirittura aggravata. Il suo già debole cuore non si sarebbe mai sviluppato regolarmente, mentre lei continuava a crescere, sempre più delicata e sempre più in pericolo.
Io lo seppi quando eravamo già insieme da qualche settimana, ed ero già cotto come un adolescente alla prima esperienza.
Forse proprio per quello me ne innamorai.
Per i suoi sorrisi rari e venati di tristezza.
Mi sono sempre innamorato di donne che erano in realtà uccellini con un’ala spezzata.
Dopo sei mesi fantasticavamo di matrimonio e di bambini e dopo un anno eravamo pronti al grande passo. Quasi pronti.
In realtà sapevamo entrambi, pur senza averne mai parlato apertamente, che non avrebbe retto a lungo. L’emozione del matrimonio, l’allontanamento dalla famiglia, una qualsiasi forma di stress avrebbe potuto causarle serie complicazioni.
Che potesse reggere una gestazione o dare alla luce un bambino non era neanche pensabile. Ma era quello che più di ogni altra cosa al mondo desiderava, lo sapevamo entrambi. Per me era lo stesso, naturalmente, ma pur di continuare ad averla accanto avrei rinunciato a qualsiasi cosa.
Non ne parlavamo mai, forse perché non c’era nulla che potessimo fare, ma quel silenzio stava diventando un muro tra noi due. Lo sentivo, quasi palpabile.
Allora presi la decisione. Ero giovane, forte, con un carattere riflessivo che non lasciava però troppo spazio ad emozioni violente o a turbe psicosomatiche.
Potevo cambiare lavoro, rinunciare a tante cose che in quel momento, rispetto alla prospettiva di avere una famiglia, vedevo come futili e prive di importanza.
Avrei resistito. Soprattutto avremmo potuto rendere realtà i nostri sogni, essere una famiglia, ed avrei avuto lei, con me, per il resto dei nostri giorni.
L’idea mi accarezzava già da un po’, ma osai parlargliene solo quando fui sicuro, quando avevo già deciso.
Quando glielo proposi, ma forse dovrei dire glielo comunicai, mi ascoltò in silenzio e così rimase per qualche minuto dopo che ebbi finito di parlare, con gli occhi bagnati e sulle labbra il sorriso triste di cui mi ero innamorato.
Non disse nulla, non mi chiese perché, solo annuì, mi prese una mano tra le sue, la baciò, ed infine vi posò una guancia, sul dorso.
Mi mossi con discrezione ma con risolutezza. Avere una buona condizione finanziaria risulta determinante in alcune situazioni. Bastarono alcune conoscenze, un geniale cardiochirurgo molto impegnato nella ricerca medica e sensibile ad argomenti con otto zeri, un mese e mezzo di ferie ed un viaggio aereo fino ad un piccolo stato del sud Africa, spacciato ad amici e parenti come la nostra prima vacanza insieme.
Trapianto cardiaco incrociato, lo definiva il nostro dottor Frankenstein parlandocene.

Tanto per tranquillizzarci ci fece firmare, oltre naturalmente al congruo assegno, una liberatoria (ovviamente una cartaccia “inter nos” che non sarebbe mai risultata da nessuna parte, tranne nel caso in cui gli fosse stata utile…) nella quale dichiarammo di assumerci la responsabilità di sottoporci ad un intervento da lui sconsigliato. Scrupoloso, il taglia e cuci.
Ma meritò quei soldi fino all’ultimo centesimo.
Risvegliandomi dall’anestesia ebbi la sensazione di risvegliarmi da un sonno febbrile, ma dopo pochi minuti ero perfettamente conscio e consapevole, anche se un tantino intubato. All’infermiera che mi assisteva, immediatamente chiesi dell’acqua e chiesi di lei. Non esattamente in quest’ordine.
Si era già risvegliata da più di mezz’ora e stava bene, quasi meglio di me.
Grazie a Dio, il peggio era passato, pensai.
Non bisognerebbe mai pensare dopo un’anestesia.
Probabilmente fu soltanto qualche mese dopo la completa guarigione che incominciò il distacco. Ma ripensandoci in seguito, giorno dopo giorno, sposto sempre più indietro nel tempo il momento in cui iniziò ad esplorare il mondo senza di me: non quando alla fine conobbe qualcun altro, cosa che puntualmente le lessi in viso immediatamente, non quando annunciò che sarebbe andata in vacanza con i suoi nuovi amici, non quando si iscrisse ad un corso di balli latini, non quando andò alla prima festa senza di me. Non quando restò fuori a pranzo la prima volta e nemmeno quando, qualche tempo prima, incominciò ad uscire per fare la spesa tutte le mattine. Per avere sempre in frigo roba fresca. Non quando mi confidò che il mondo le sembrava così diverso adesso… no.
Al momento faccio risalire quella data al giorno in cui per la prima volta uscì a fare una passeggiata, giusto una mezz’ora, da sola.
Tra qualche tempo lo identificherò con il momento in cui ci presentarono.
Non mi fa più male pensare a lei. Non lo meriterebbe, in ogni caso. Credo che in fondo non mi abbia mai amato davvero. Semplicemente, ero tutto ciò che la vita le aveva messo davanti fino a quel momento. Non aveva mai avuto la possibilità di conoscere altro e si era limitata a raccogliere ciò che il vento aveva portato fino ai suoi piedi.
In verità sul momento ci stavo male da cani. Ma lo tenevo per me, non osavo parlarne per non essere meschino, per non farla sentire in colpa. Del resto non mi aveva chiesto niente, l’idea era stata mia. E poi temevo che dare voce all’amarezza e ai timori avrebbe potuto nuocere a me stesso.
Nessuna emozione, nessuna sollecitazione, nessuno stimolo brusco. Questi gli ordini del medico. La più piccola trasgressione avrebbe potuto significare crisi cardiaca, infarto. La quercia era stata privata delle sue radici. Naturalmente mangiare poco e con regolarità, ma solo cibi “sani”. Bleah.
Non potevo nemmeno berci sopra!
Avevo già lasciato il lavoro che adoravo e che mi aveva portato a girare il mondo più volte, e mi limitavo a scrivere articoli per una rivista specializzata e manuali tecnici, saltuariamente.
I miei hobby e lo sport… beh, quella era ormai roba da dimenticare. Tanto più che mi ero scelto delle attività non proprio sedentarie. Che razza di scavezzacollo ero stato, nella mia vita precedente.
Gli amici erano l’ultima risorsa rimasta, i miei amici fedeli, che mi portavano a casa un po’ del mondo esterno, il loro mondo. Forse fu colpa mia, magari mi mostravo malinconico, o forse decisero poco alla volta che per il mio bene era meglio non parlare di torta Sacher con il diabetico, ma comunque anche i loro racconti cessarono.   Le visite, quelle no. Ancora adesso, dopo due anni, almeno uno di loro, a turno o più spesso insieme, vengono a farmi visita quotidianamente.
Ma certi giorni la loro visita mi ricorda di quei tempi là, ed allora si trasforma in un incubo che fatico a razionalizzare.
Rassegnato? Non ci si rassegna ad una cosa così, e se mi chiamassi Faust l’anima la baratterei per una sola notte insieme a loro come ai vecchi tempi.
E questo è più o meno tutto.
E’ così che ho finito per trascorrere gli ultimi due anni in un limbo di bambagia, condannato a vivere una non vita senza nulla di più di una asettica quotidianità senza via d’uscita.
Ma nel copione non era questa la parte assegnata a me. Ho giocato alla roulette e la pallina è schizzata fuori dalla ruota, lasciandomi privo della speranza di vincere, senza peraltro troncarla espropriandomi di tutto il mio capitale, che comunque non è più mio. E’ sul tavolo. E’ ancora in gioco e nel contempo non lo è più.
Ed è esattamente così che ho deciso di venire qui, oggi, 27 Agosto 2002.
In mezzo a questo trambusto, a questo turbinio di vite.
E mentre attendo, in fila, sento il calore del sole sul viso e ascolto il vociare allegro e leggermente ansioso di chi mi sta intorno.
E sento il ghiaccio che mi porto dentro sciogliersi lentamente.
Le montagne russe più alte d’Europa. 
A volte il biglietto del viaggio è davvero a buon mercato.

Ci sono le cose che uno vuole fare. A venti anni, più o meno tutti, abbiamo voluto aprire un chiosco in un’isola semi deserta. Vendere cocco e vivere di natura e di amore. A trenta il sogno diventa l’attico a New York, a quaranta la fattoria in campagna. Solitamente, poi, a cinquanta si è ancora impiegati in banca.
Invece c’è gente, che, nel piccolo, ha sogni e li realizza.
Giulia e Francesca pensavano che avere una piccola attività per vendere prodotti davvero biologici fosse quello che avrebbero dovuto fare. E importava poco che farlo in un periodo in cui le attività chiudono potesse essere un rischio.

                                                                 

Prendendo spunto dal romanzo di Camus, il terzo contest ha per titolo Lo straniero

Le regole sono sempre le stesse:

I racconti devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it
La lunghezza massima è di duemila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office.
Il titolo deve essere composto dal vostro nome e da "lostraniero".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Scadenza: trentuno maggio 2016.

Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Precisazione ridondante, in quanto i racconti devono essere scritti appositamente per il contest.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito. Sarà più semplice comunicare.

Cosa si vince?

I due vincitori (se i racconti inviati  saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it

A dicembre 2016 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.

 

“Mille lire non ti cambieranno la vita, ma possono rivelartela”.
Tutto stava nel tono. Doveva essere misterioso, ma non troppo basso altrimenti nessuno l'avrebbe sentita in mezzo a quel putiferio.
Gliel'aveva insegnato madama Dorè, la donna per cui lavorava, con cui viaggiava e che ormai le faceva da madre.
Ma Angiolina era stanca di vivere le fiere, sentirne il frastuono e dormire nel retro del camper.
Quante coppiette aveva visto correre innamorate dalla signora a farsi predire il futuro. Il segreto stava tutto nel farle andare via contente. Del resto era solo un gioco. Una piccola emozione e qualche frase da ricordare.
Quanto li invidiava. Sentiva parlare d'amore tutte le sere, e si immaginava con il braccio di un bel ragazzo attorno al collo, mentre le chiedeva se volesse lo zucchero filato.