Discussione sulla verità tra Dante e Guido Cavalcanti1
Luogo Firenze.
Anno: intorno al 1290.
Scena: in una stanza di un'accademia poetica fiorentina.
Sono presenti alcuni studenti averroisti che iniziano una disputa e tenzone tra loro.
“Che cos'è la verità?” chiede uno studente ad un altro studente.
“Ciò che non è falso” risponde il secondo.
“E cosa sarebbe allora la falsità?” chiede di nuovo il primo.
”Ciò che non è vero.”
“Bravo per l'eleganza nel fuggir senza rispondere. Una definizione che rincorre l'altra e nessuna delle due veramente definita o spiegata nelle sue funzioni, qualità e substantia.”2 risponde contrariato il primo studente averroista.
“E quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” si difese il secondo studente averroista.
“Potevi rispondere che la verità è luce o allontanarsi dalle tenebre che ricoprono le menzogne, se proprio non avevi nulla di meglio da dire, ma questa è una domanda che ho posto io e non sono io che devo necessariamente rispondere a ciò.” rispose il primo studente averroista.
“E allora risponderò io.” si intromise Dante alzando il dito per inserirsi nella disputa e portarsi al centro della stanza.
“E io controbatterò volentieri su una questione così alta.” rispose Guido Cavalcanti alzando anch'egli il dito e portandosi al centro della stanza.
I due studenti averroisti, visti entrare nella discussione due maestri di punta dell'accademia, si ritirano in silenzio salutando con un cenno del capo ai bordi della stanza come spettatori.
“Quindi quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” chiese Cavalcanti a Dante.
“Le stesse funzioni e qualità che hanno Dio, gli Dei e i suoi prodotti che sono luce e chiarezza.” rispose Dante.
“Sarebbe a dire?” chiede Cavalcanti.
“Che la verità è un prodotto degli Dei o di qualcuno che tende ad avvicinarsi verso di loro.” risponde Dante.
“Qualcuno chi?” chiese Cavalcanti.
“Chiunque decida di tendere verso il vero.”
“”Questo implicherebbe che la menzogna sia un prodotto di Satana e demoni o di qualcuno che tende verso di loro.” controbatte Cavalcanti
“Niente di più vero, ma queste due cose sono i limiti estremi a cui qualcuno tende o può arrivare. In mezzo a questi due limiti, esiste tutta una gradazione e combinazioni di verità e menzogne, che crea il mondo popolato di figure e atteggiamenti veritieri o menzogneri, nel quale viviamo.” risponde Dante.
“Avete dato la definizione di Inferno e Paradiso Ser Dante.” rispose Cavalcanti.
“E anche quella di purgatorio se la guardate bene. Un giorno lo spiegherò meglio da qualche parte.” rispose Dante.
“Vero. Tra Dio e Satana risiede una zona intermedia di menzogne e verità che si potrebbe chiamare benissimo purgatorio come dicono i nuovi teologi3.
Ma il paradiso e inferno dove si troverebbero se la terra per come la percepiamo noi, agisce e si comporta come un immenso purgatorio animato da noi stessi?” chiese Cavalcanti.
“Il paradiso o l'inferno sono i luoghi di destinazione finale che indicano la strada che prenderà ciascuno di noi a secondo che faccia bene o male.” rispose Dante.
“Intendete dire le nostre anime?”
“Intendo dire noi. Noi siamo la nostra anima.”
“E i nostri corpi di carne cosa sarebbero allora?” chiese curioso Cavalcanti.
“Corpi materiali animati da noi stessi, con i quali ci muoviamo e interagiamo nella materia.” rispose Dante.
“E per ora, tornando a Dio e alla verità?” chiese Cavalcanti.
“Per ora si da il caso che per tendere verso Dio occorre essere sinceri e per allontanarsi da lui occorre essere menzogneri, e questo ha molto a che fare con la verità.” risponde Dante.
“Ma come può un uomo che per definizione non è Dio, tendere o avvicinarsi a Dio, che non è per definizione uomo né materia alcuna, ma un'essenza creatrice, che si trova ovunque uno vada?” chiese Cavalcanti.
“Perché essendo l'uomo figlio di Dio, è anch'egli un piccolo Dio che deve crescere, e visto che Dio è verità, anche l'uomo se vuol essere tale a suo padre, deve seguire tale via, se vuol crescere e raggiungere suo padre naturalmente.” risponde Dante.
“State confermando che siamo fatti della stessa essenza di Dio.”
“Vero, la verità viaggia con luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e l'amabile visione di Beatrice.” rispose Dante.
“Beatrice la vostra donna luminosa?” Chiese cavalcanti.
“Beatrice colei che dà e concede beatitudine.” rispose Dante
Appena udite queste parole, interviene interrompendo il dialogo, uno degli studenti averroisti, molto incuriosito e interessato da quanto dante aveva appena detto.
“ISTANZA4, Ser Dante.” intervenne ad alta voce uno studente alzando la mano.
“Ditemi.” rispose Dante.
“Costei è un essere vero e reale o è solo una visione luminosa vostra ser Dante?” chiese lo studente.
“Questi sono fatti confidenziali miei, simili a molti di quelli che capitarono a diversi trovatori provenzali, che ho già spiegato e mostrato al qui presente Guido Cavalcanti e ad altri amici rimatori di quest'accademia, che hanno visto e vissuto fatti simili ai miei, e mi sono qui testimoni in questo momento.”
“Vorreste spiegarli meglio anche a noi Ser Dante?” chiese lo studente.
“No, non intendo spiegare a chi non ha vissuto o provate personalmente queste cose, perché occorrerebbe tentare di spiegare e definire a parole, cose che uno non ha mai visto o sperimentato, oltre a dover definire diversi altri termini come vita, Dio, Dei, spiriti, anime e altro, che richiederebbero discussioni e spiegazioni ben più lunghe di questa.” rispose Dante allo studente averroista fermando sul nascere una digressione troppo ampia che avrebbe portato molto lontano dalla disputa iniziale.
Interviene pure Guido Cavalcanti verso lo studente averroista.
“Vero. Io come molti altri poeti stilnovisti di quest'accademia, sono testimone di quando appena udito, e confermo che Ser Dante ha mostrato e spiegato nei dettagli a me e ad altri cosa sia e come sia fatta Beatrice, e vi posso dire che non è cosa che tutti possano comprendere senza vedere, e vedere senza apprendere in un'istante chi o cosa possa essere costei.“
Lo studente abbassò la mano e fece con un cenno del capo e un invito a continuare la discussione tra loro.
LA DISCUSSIONE SULLA VERITÀ RIPRENDE TRA DANTE E CAVALCANTI
“Avete detto poc'anzi, che la verità viaggia assieme a luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e amabile visione di Beatrice, ossia colei che da beatitudine. Giusto ser Dante?”
“Giusto.” confermò Dante
“Ora da quanto detto sopra sembra che stiate descrivendo le qualità della luce pura che hanno le pietre filosofali, e degli spiriti superiori che diventano visibili sotto la luce pura di quelle pietre5, come dicono filosofi e alchimisti, Ser Dante.”
“E cos'altro potrebbero essere queste cose, se non prodotti e opera di Dei decaduti e caduti sulla terra?” rispose Dante.
“Dei decaduti e caduti sulla terra per quale motivo?” chiese Cavalcanti.
“Per essersi allontanati dalla verità. Costoro hanno perso potere e sono finiti a vagare sulla terra, dove un dì sperano di tornare potenti come una volta.”
“Ma questo introduce il politeismo di tipo cataro dei perfetti provenzali6.”
“Questo non introduce nulla di nuovo, poiché il Dio unico è sempre quello. Caso mai spiega che gli Dei furono scacciati dal Dio unico, persero potere per essersi allontanati dalla verità e finirono sulla terra come seguaci di Lucifero, dove forse stanno tuttora. Gli Dei esistevano anche prima che il Dio rimanesse unico e solo.” rispose Dante.
“E perché allora costoro non sono più in cielo?”
“Forse perché si allontanarono dalla verità e si misero a tradire la loro missione che era creare ordine nell'universo come un astronomo può ben osservare nei movimenti regolari del cielo, e finirono per creare caos e disordine qui sulla terra, come chiunque veda una guerra tra uomini e il suo campo di battaglia.” rispose Dante.
“Tutto questo è interessante come discussione filosofica, ma dovreste provare a dirlo con l'inquisizione che sta distruggendo i perfetti catari per aver sostenuto cose simili.”
“Non so spiegarvi perché i perfetti catari vengano perseguiti, ma la nostra tradizione dice che i demoni furono seguaci di Lucifero che finirono puniti sulla terra, e se vi piace cercare la verità delle cose, anche l'inquisizione potrebbe essere un loro frutto finiti sulla terra.
Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore Dai loro frutti conoscerai il loro Dio. Ricordate questi versi del vangelo?”
“E allora in ultima analisi, che cos'è la verità? chiese Cavalcanti.
“È qualcosa per cui siamo stati fatti, e si trova ovunque tu vada?”
“Come Dio? Anche lui è ovunque tu vada?” chiese Cavalcanti.
“Sì, ma la verità non ti sta guardando, né seguendo. Sei tu.”
“Io?” rispose un po' spiazzato Cavalcanti
“Sì. Tu e chiunque altro sia vivo. Tu sei verità e scacci o attiri menzogne, quando ti allontani o avvicini ad esse.”
“E Dio?” chiese Cavalcanti.
“Anche lui è in te ed è fatto di luce e verità.” rispose Dante.
“Ma allora chi siamo noi?”
“Esseri spirituali decaduti e finiti nella materia.” continuò deciso Dante.
“E di che cosa sono fatti i nostri spiriti?” chiese curioso Cavalcanti.
“Siamo fatti come il cielo e le stelle, della stessa sostanza luminosa degli Dei.
E da qui in poi non mi chiedere altro, perché io non ti dirò più altro.” concluse il discorso e si ritirò in silenzio Dante.
1Guido Cavalcanti, poeta fiorentino del '200 amico di Dante. All'epoca Dante e Cavalcanti erano entrambi esponenti di spicco dello stilnovismo italiano.
2Substantia - Sostanza, letteralmente ciò che sta sotto a qualcosa.
3Il concetto di purgatorio, pochi anni prima di Dante, ancora non esisteva ed era stato appena introdotto da pochi anni come verità teologica.
4Istanza- Letteralmente In-Stantia - Stiamo in questa stanza o luogo.
5Le pietre filosofali erano pietre preziose tagliate a prisma, che scindevano la luce nei colori dell'arcobaleno, e molti alchimisti e filosofi osservando quel fenomeno nuovo per l'epoca, credevano che quelle pietre fossero state lasciate cadere dagli Dei sulla terra, e avessero proprietà superiori tutte ancora da scoprire. (N.d.A.)
6I catari erano fedeli di un'eresia proibita e perseguitata in Provenza nel periodo di Dante, che tramite la conoscenza spirituale, potevano diventare perfetti, e si facevano chiamare con tale nome coloro che raggiungevano tale stato..
Capita che i pensieri siano come fumo che si dissipa nell'aria: così denso appena esce dalla bocca ma disperso e invisibile poco dopo. Chiari e lucidi un solo istante nella mente ma subito dopo confusi e dimenticati. Spesso anche i sogni si comportano così. Sarà forse per colpa degli occhi, che assimilano e processano ogni sfumatura e sovrastano l'immaginazione, che tanti si fermano alla mera superficie senza approfondire?
Così pensava Antonio, cieco da un occhio, mentre fumava la prima sigaretta della mattinata.
Ho il cervello pieno zeppo di parole che però non vogliono uscire, non perché io sia timido o muto, ma perché appena cerco di incollarle insieme per creare un discorso logico si sciolgono e frammentano come se non sapessero più come tenersi mano nella mano. Mi basta tenere il mio occhio buono chiuso per sollevarmi da terra e, attraverso i suoni della città, volare lontano... il problema è che, tornato alla realtà, non posseggo i mezzi per tramutare quel volo in emozioni comprensibili. É allora inutile la mia sofferenza? Quindi si combatte in quel che si pensa credere, senza secondi fini o assurdità, con una luce fioca ma accesa. Si, una lucina accesa. Basta vivere nel completo buio, non ne posso più e spero che qualcuno mi capisca anche se la mia "luce accesa" è il mio occhio spento; è la mia personalissima possibilità di far danzare la mente con se stessa senza farla vedere a nessuno. Qual è il problema dunque? Il male, la sofferenza, il triste sanguinare di una realtà che non sempre mi appartiene? Ma cos'altro potrei fare se non sognare? Devo andare avanti dritto, non ci sono alternative. Solo quando è troppo tardi si cerca una soluzione per poi lamentarsi del dolore... ma è meglio così: conoscendo il dolore diventeremo più forti dicono.
Una mente disturbata o lucidissimi pensieri di un uomo di mondo? Sappiamo davvero distinguere la differenza tra giusto e sbagliato? Tra bene e male? Non è forse vero che ogni anima legge il proprio presente in modi diversi, con occhi diversi, con sguardi diversi, con parole diverse, con sentimenti ed emozioni diverse? "Ci si può considerare liberi finché la nostra libertà non lede quella altrui". Liberi dunque non lo saremo mai, perché ogni azione, che sia essa attiva o passiva, lede o modifica l'azione altrui; in pratica siamo destinati a rompere i coglioni alla gente con il solo respirare.
Spense la sigaretta e si diresse a prepararsi il secondo caffè, strascicando i piedi a fatica nel suo pigiama ancora tiepido, per trovare una scusa con se stesso e fumarsene un'altra. Aspettando lo scatarrare della moka si sedette e ancora una volta, chiudendo l'occhio buono, preferì allontanarsi dalla realtà.
Sarò il solo ad avere questi pensieri o ci sarà altra gente come me? Altri che si rifugiano attraverso una finzione da un mondo surreale? Magari altre persone mascherano meglio il loro sentirsi inadatti, io non ci riesco, dovrei incontrare qualcuno come me e chiedergli come si fa... ma così vivrei la sua finta realtà, così indosserei la sua pelle. Anche quello sarebbe inutile, come vincere a videogames con codici e trucchi: arrivi alla fine ma perdi il gusto della vittoria. Devo per forza arrivare da solo ad una soluzione e capire perché le giornate mi sfuggono di mano. Devo per forza trovare il modo di tramutare l'imbarazzo in esplosività e smettere di sottostare alle mie inadeguatezze. Devo per forza alzare la testa e capire il mio posto nel mondo delle ombre, per evitare di diventare cieco del tutto alla realtà. Devo, per forza. Dentro di me è tutto così chiaro ma là fuori... là fuori è diverso. Tutto cambia quando mostro alla mia pupilla i colori di una verità che non è apparente ma sin troppo solida.
Tornò alla realtà per pochi istanti: bevette il caffè bollente e subito andò sul terrazzo. Seduto sulla seggiolina da campeggio si accese l'ennesima Marlboro.
Però pensandoci bene la mia vita non fa troppo schifo, ho una donna, una casa, qualche lavoretto... e allora cos'è? La paura di un futuro sempre più incerto? Il terrore di trasformarmi in ciò che ho spesso ripudiato? Perché non riesco a dare un senso alla vita che inesorabilmente mi passa davanti come la pellicola di un vecchio film? I trucchi di magia che ho imparato da bambino non bastano più, è ormai inutile nascondersi dietro ad un fazzoletto magico, c'è bisogno di più energia, più potenza, più coraggio. Già, coraggio, il coraggio di affrontarmi tutte le mattine e combattere contro il mio occhio cieco, che altro non fa che sognare e distillare dubbi dalle immagini che l'occhio buono gli manda. Forse il problema è solo quello, la visione che ho del mondo, sempre a metà. Sento le mezze verità, le mezze parole, le mezze bugie, fumo mezza sigaretta, bevo mezza bottiglia, faccio mezzo pieno alla macchina, sto in mezzo alla strada, mi lavo a metà, vivo a metà. Potrei magari trasformarla in qualcosa di positivo... potrei trovare in questa esistenza a metà la pienezza dell'assimilare solo la parte interessante ed elaborare, risolvere ed espellere l'altra parte. Prendere i mezzi sorrisi come gesto d'affetto e non come sorriso di circostanza, prendere una pacca sulla spalla come un mezzo incoraggiamento e non come un "Povero sfigato, ci hai provato"; potrei prendere un "Ciao, come stai?" come un genuino interesse verso di me e non un semplice saluto.
Sarà difficile vedere la parte bella delle cose, mi sono allenato così tanto ad ignorarla che inizialmente sarà quasi impossibile anche solo da scorgere. Passato qualche tempo però può darsi che io riesca a sentire in corpo solo quella, così da non dovermi rifugiare nella rabbia del buio ma finalmente vedere la tanto pubblicizzata bellezza del mondo. É deciso.
Aprì l'occhio e fece appena in tempo ad abituarsi alla luce e guardare il sole che un merlo, per chissà quale assurdo destino, gli si schiantò addosso centrando con il suo becco arancione la nera pupilla buona, rendendolo completamente cieco.
E allora vaffanculo.
Dalla finestra del mio studio intravedo, oltre il giardino, il bosco di querce che si estende dietro la casa, fino alla zona industriale, e nasconde alla vista gli antiestetici capannoni. Quando io e Irene abbiamo comprato la villetta, prima di sposarci, la vicinanza di quelle costruzioni, anonime e un po’ squallide, è stato un problema per lei. Ma io mi sono innamorato subito di questo posto: in origine era un vecchio casale, ristrutturato diversi anni fa, quando i campi hanno iniziato a essere cancellati dall’espansione edilizia e dalle lottizzazioni. Prima di venire ad abitarci abbiamo fatto un ulteriore restauro, adattandola ai nostri gusti e alle nostre esigenze: nel tempo tra noi e questi muri si è stabilita una sorta di simbiosi, uno scambio di energie positive a cui adesso è difficile sottrarsi. Qui si ha la sensazione di essere in campagna, isolati dal resto del mondo, seppure non lontani dal centro: per arrivarci basta percorrere la nostra piccola strada a senso unico fino all’incrocio con la via principale del quartiere, girare a destra e dopo circa una cinquantina metri immettersi nella strada provinciale, che cinge la città come un anello. Quando non si è pressati dal tempo è piacevole anche fare il tragitto a piedi, o in bicicletta. Il giardino circonda la casa: un muretto, sovrastato da una rete, e un cancello ne separano la parte anteriore dalla strada; il retro, che ne è anche la parte più estesa, si allarga per parecchi metri quadrati, quasi trecento e, se non fosse delimitato dalla recinzione, si confonderebbe con uno dei pochi prati rimasti in questa prima periferia, non ancora attaccato dalla cementificazione scriteriata degli ultimi anni. Appena siamo arrivati qua Irene si è anche impegnata nel trasformare un piccolo rettangolo del terreno in un orto minimalista, più per il gusto di mettersi alla prova che per altro. La sua soddisfazione nel portare in tavola i prodotti di quella striscia di terra, che si era ritagliata tra i cespugli di bosso e di forsizia, è sempre stata motivo d’ilarità: pomodori un po’ rachitici e insalata spesso già spigata, ma fonte di grande orgoglio per lei, nata e cresciuta in una grande città del nord, dove l’unico verde che vedeva era quello del parco dove andava a correre in primavera e in estate.
Passo molto tempo in casa, soprattutto in questa stanza, da quando l’incidente mi ha costretto a limitare gli impegni. Del resto, è sempre stato l’ambiente che ho amato di più. Io e Irene abbiamo deciso di farne il nostro studio ancora prima di trasferirci qui in modo definitivo, forse già dalla prima volta che abbiamo visto la casa: molto grande, con i soffitti alti, il parquet di un bel rovere dai toni caldi, di fronte alle due finestre un camino imponente, con la cornice in legno intagliato, del tipo preferito da mia moglie, che è stata sempre condizionata dalla sua passione per le atmosfere inglesi nella scelta dell’arredamento. Ha sempre detto: «Per me essere qui è come essere dentro un romanzo di Jane Austen.». È rimasta quasi delusa quando, durante il nostro primo viaggio in Inghilterra insieme, abbiamo visitato delle dimore storiche e notato quanto fossero bassi i soffitti di alcune vecchie abitazioni. Le è piaciuto da impazzire arredare la nostra tana, e qui tutto parla di lei. Sullo schienale della poltrona, accanto al focolare, è posato il suo scialle, quello tutto colorato, tessuto dalla sua amica Paola che, tra un impegno e l’altro della professione di avvocato, si ritaglia degli intervalli per eseguire lavori al telaio, che poi regala ad amiche e parenti. Il miscuglio di sfumature è del tutto bizzarro, fuori da ogni logica: il giallo alternato al fucsia, e poi turchese, arancione, verde mela, rosso. Sembra l’opera di un messicano un po’ fuori di testa: sul nero della pelle della poltrona è come un’esplosione di allegria in una giornata tetra, fuochi d’artificio che irrompono nel buio della notte.
Il bagliore generoso e avvolgente della fiamma nel camino mi fa pensare ai pomeriggi passati qua dentro: lei immersa nella lettura dei suoi adorati libri e io che lavoro a qualche progetto al tecnigrafo: ho sempre avuto l’abitudine di portarmi del lavoro a casa. Quando fuori c’è la neve, come adesso, per esempio. Ma non solo: qui mi concentro di più, i miei progetti migliori sono usciti da queste quattro pareti. Non abbiamo mai messo le tende alle finestre, tanto lì dietro, oltre il recinto, ci sono solo il prato e il bosco. Il paesaggio, a cui le finestre fanno da cornice, oggi è davvero incantevole: sembra una cartolina di Natale, anche se il Natale, fin troppo piovoso quest’anno, è ormai un lontano ricordo. Si cominciava già a pensare alla primavera quando c’è stata questa recrudescenza dell’inverno. Era da tanto tempo che non nevicava così e io avevo quasi dimenticato quanto fosse piacevole starsene al caldo della legna che brucia, circondati dal silenzio protettivo del soffice strato candido teso a ricoprire tutto e quasi messo lì, come una coperta sotto cui rannicchiarsi, dalla sollecitudine premurosa di un vecchio amico. Il rumore della strada arriva attutito fin qui: il fruscio soffocato delle ruote che scivolano sulla neve e la cacofonia metallica delle catene. Ma il silenzio è più forte, avvolgente, rassicurante. Suggestivo.
«Luca, ti va un po’ di musica?», la domanda immancabile di Irene in momenti come questo. Le è sempre piaciuto ascoltare brani di musica in casa, ancora di più se insieme a me. Le note di melodie barocche, le sue preferite, sono risuonate talmente spesso qui dentro che, a volte, sembrano prendere vita da sole e scaturire dalle pareti che le hanno assorbite nel tempo.
La sera in cui siamo andati a cena da Guido e Miriam, Irene è uscita di casa prima di me e, quando l’ho raggiunta, era già al volante della sua macchina. Stava ascoltando un concerto di Tartini, il cd era di sicuro già nel lettore ed era partito non appena lei aveva acceso il motore.
«La tua è in garage, inutile tirarla fuori adesso.», mi ha detto. «Dai, salta su che siamo già in ritardo! Sei sempre il solito, tu!».
Era euforica. O nervosa: in fondo avrebbe preferito starsene nella nostra bella casa, “la casa di Nora felice”, è così che l’ha chiamata. Aveva anche proposto, con uno di quei guizzi di incantevole follia per cui m’ero innamorato di lei, di mettere una targhetta con quel nome accanto al cancello. Ero riuscito a dissuaderla, ma era stata dura. Fosse stato per lei, Ibsen avrebbe dovuto scegliere un’altra conclusione per il suo testo, perché l’intenzione di lasciare me e la nostra dimora amatissima non l’avrebbe mai neanche sfiorata, è quello che ha sempre detto ridendo, ma con gli occhi seri.
Quella sera pioveva, neanche poi tanto, una pioggia che durava da quasi una settimana ormai, tipica del mese di novembre in questa zona. Lei parlava in continuazione, aveva tante cose da raccontarmi perché il giorno prima era rientrata da una visita alla sua famiglia: aveva rivisto anche delle vecchie compagne di scuola di cui io mi ricordavo appena, per averle incontrate al nostro matrimonio. È stato mentre mi raccontava della separazione recente della sua ex compagna di banco al liceo, che era stata anche testimone al nostro matrimonio, che s’è interrotta di colpo e poi, dopo un breve silenzio, ha annunciato «Devo dirti una cosa.», con un tono così compunto, diverso da quello leggero avuto fino a quel momento, che per un attimo nella mia mente si sono rincorse le ipotesi peggiori: malattie, disgrazie in agguato, rivelazioni di segreti nascosti per anni e, certo, anche la presenza di un’altra persona nella sua vita. Dopo un tempo brevissimo, ma che a me è sembrato più lungo dell’eternità, ha aggiunto, quasi in un soffio: «Aspettiamo un bambino.», un’altra pausa, con gli occhi sempre puntati sulla strada, mentre io fissavo lei e non riuscivo a dire nulla per lo stupore che, in una carambola di emozioni, erompeva in un’implosione di gioia incontenibile, che facevo uno sforzo enorme a controllare, visto che eravamo in auto, e volevo evitare un incidente. «O una bambina. Lo sapremo tra qualche mese.». Mentre era in visita dai suoi genitori, aveva avuto un presentimento e aveva fatto il test di gravidanza, che era risultato positivo. Quindi si era fatta anche visitare dal ginecologo da cui andava quando abitava ancora lì, e ne aveva avuto la conferma. I nostri piani erano diversi, avevamo deciso di aspettare ancora un po’ prima di avere figli, ma in quel momento la sensazione che il caso, o il destino, avessero deciso per noi mi è sembrato un gran colpo di genio, un dono inaspettato e proprio per quello straordinario. Lei continuava a guidare, potevo solo farle una carezza sui capelli, mentre i nostri sorrisi felici si riflettevano sul parabrezza che i movimenti regolari del tergicristallo mantenevano terso, cancellando le poche gocce della pioggia lieve ma persistente.
A casa di Guido e Miriam il racconto del viaggio appena fatto, con tutti i particolari legati anche al suo passato, è continuato e, al momento del dolce, prima che sollevassimo i bicchieri per brindare alla nostra amicizia, Irene ha assunto di colpo un’espressione enigmatica e, lanciandomi uno sguardo complice, si è rivolta ai nostri amici e, «Aspettate, c’è una cosa che devo dirvi.», ha esordito. «Siete i nostri amici più cari, ed è giusto che condividiate con noi la bella novità.» «Sei incinta!», ha esclamato Miriam senza darle il tempo di finire. Non c’è stato bisogno di rispondere, le nostre facce e gli occhi dicevano già tutto. E poi è stato un tourbillon di baci, abbracci, congratulazioni, auguri, brindisi.
Alla fine della serata, al momento di tornare a casa, e nonostante le mie proteste, Irene si è rimessa alla guida della macchina, convinta che io avessi esagerato con il prosecco per festeggiare la vita annunciata. Non aveva mai smesso di piovere, le gocce sottili calavano sulla città come un velo, con l’insistenza uggiosa a cui si è abituati da queste parti, gocce minute e implacabili come il pulviscolo che si accumula nostro malgrado sulle cose. Ma noi non ne eravamo affatto infastiditi, niente avrebbe potuto turbare il nostro stato di grazia. Quando Irene aveva acceso il motore, era ripartita la musica di Tartini, un concerto per violino che lei ascoltava spesso, era tra i suoi preferiti. La musica riempiva l’abitacolo e noi ci godevamo quel momento in silenzio, con i fari delle poche auto, che andavano nell’altra direzione, a illuminare noi e la strada, più buia del solito quella sera. Poi i ricordi si trasformano in una nebbia fitta, squarciata a tratti da immagini indistinte, come capita a volte nei brutti sogni. C’è la moto, che ha invaso all’improvviso la nostra corsia all’imbocco della curva, e l’assoluta impossibilità di evitarla. Non ricordo se abbiamo gridato. Di quella manciata di secondi è rimasto solo il bagliore improvviso e accecante di un fanale che puntava sparato contro la nostra auto. Dopo mi hanno detto che il motociclista ha perso la vita nell’impatto, io e Irene siamo stati portati in ospedale in condizioni gravissime, in seguito alla telefonata di un altro automobilista che aveva assistito all’incidente. Irene è morta il giorno dopo. Io sono stato tenuto in coma farmacologico per diverso tempo e quando ne sono uscito mi hanno comunicato che avevo perso l’uso delle gambe; e mia moglie.
A Irene sarebbe piaciuta davvero tanto tutta questa neve: dalla finestra, avvolta nel suo scialle strampalato e festoso, si sarebbe riempiti gli occhi di tutta la luce azzurrina riflessa dal cielo sereno su questo drappo intessuto di cristalli purissimi e impalpabili, appena sfiorato dal sole. E anch’io sto bene qui, dietro i vetri; con lei.
“Maria svignarsela, bisogna svignarsela ti dico! Adesso! Subito! Prima che questa terra ci risucchi e ci seppellisca vive, che questa angoscia ci tolga l’ultimo soffio di essenza vitale che ci è rimasta in corpo! Vuoi che diventiamo degli zombies ambulanti come la maggior parte della gente che ci circonda? Che vive per inerzia, solo perché non ha avuto il coraggio di scappare, di provare a cambiare e migliorare la propria vita? Io no! Ascoltami per favore!”.
Carmela, primogenita di 4 figlie, parlava con sua sorella Maria, la più piccola di tutte, tra di loro c’era un abisso, non solo dovuto ai dieci anni che le separavano, quanto piuttosto alle loro storie personali: la più grande aveva deciso presto di sposarsi, quando ancora frequentava l’università e adesso era reduce dalla fine del suo matrimonio, con una figlia a carico e disoccupata; Maria invece era stata una bimba viziata, con nessuna voglia di studiare né di impegnarsi nella vita, ma ora si trovava ai ferri corti, i genitori le avevano chiaramente detto che non l’avrebbero più mantenuta e se non avesse trovato un lavoro l’avrebbero buttata fuori di casa, ma le minacce su di lei sembravano non sortire alcun effetto, tutto le scivolava addosso, imperturbabile dalla nascita.
Carmela, invece, era irritata, nervosa, ansiosa ed arrabbiata come sempre; aveva quel maledetto carattere spigoloso, duro ed inavvicinabile come la terra dove era nata, l’entroterra Siciliano, fatto di rocce e terreni scoscesi, invivibile, come se volesse restare disabitato per sempre.
I suoi abitanti lo sapevano bene che nascendo lì erano destinati alla sofferenza, alla lotta continua e costante, perciò venivano al mondo con il carattere già plasmato, forgiato su misura per poter affrontare quei luoghi.
Chi poteva andava via, ormai le campagne erano abbandonate a se stesse, completamente disabitate; il turismo a poco a poco anziché svilupparsi andava scomparendo, merito del carattere chiuso e poco affabile degli abitanti e delle strade che ormai erano diventate inagibili ed impercorribili.
Lo Stato sembrava essersi dimenticato che la Sicilia fosse una regione che gli apparteneva e non un’isola indipendente, inoltre il fatto che fosse a statuto speciale non l’aiutava, perché anche quando il governo avesse voluto intervenire, non avrebbe potuto, la mafia non glielo avrebbe permesso, la Sicilia era “cosa sua, cosa nostra” e ci si doveva adeguare al potere vigente, oppure soccombere, nessun’altra alternativa.
Carmela in quel periodo era più irrequieta che mai, si sentiva come l’Etna che ogni giorno riusciva a vedere da casa sua, pronta a scoppiare in ogni momento e a soffocare chiunque e ogni cosa con la lava e la cenere nera che imbruttiva tutto ed anche quando non eruttava, quando sembrava tranquilla o essersi addormentata, era comunque arrabbiata, continuava ininterrottamente a uscire fumo dalla sua cima.
Aveva un bisogno impellente e vitale: lavorare, lo doveva a se stessa e alla sua piccola Stella, di appena 5 anni.
Ormai però non era più necessità, per lei era diventata un’ossessione, che la torturava giorno e notte.
Chi è costretto a fare le mattinate o le nottate per lavoro ambisce sempre al riposo e al sonno, lo sapeva bene anche lei, che aveva lavorato per qualche anno in un bar; invece adesso sapeva anche cosa voleva dire avere tutto il tempo a disposizione e non riuscire a riposare né a dormire, l’angoscia per il futuro era troppo assillante, da toglierle persino il respiro e le forze.
Aveva lasciato suo marito, dopo aver vissuto per tanti anni nella completa solitudine e nell’abbandono totale e stava facendo tutto il possibile per riprendere la vita in mano, ma le sembrava che il mondo le remasse contro.
Per lei trovare un lavoro non era necessario per poter sopravvivere, era un modo per affermarsi, per dimostrare finalmente quanto valeva; perciò seguendo questa logica, migliore sarebbe stato il lavoro trovato, più la sua persona avrebbe acquisito valore.
Lei che aveva sempre lottato contro il consumismo, ormai era stata travolta completamente dalla sua logica: più guadagni, più vali.
Anche se poi non avrebbe speso un centesimo, no, lei avrebbe accumulato, accumulato, accumulato, come le formiche, avida solo per paura; perché da quando si era trovata a dover fare da mamma e da papà per la sua Stellina, sapeva bene che era l’unica persona al mondo che le poteva garantire un futuro sereno, dignitoso e senza troppi problemi, almeno non quelli economici.
Aveva ricominciato a studiare, lei che aveva dovuto abbandonare quella che era la sua passione, lo studio, perché le era venuta meno la speranza e la paura l’aveva sopraffatta, impossessandosi della sua mente, quando non poteva più permettersi di pagare le tasse universitarie né il biglietto dell’autobus per arrivare in facoltà e sapendo che la piaga della disoccupazione si stava spargendo a macchia d’olio in quel territorio che da sempre era abituato a conviverci.
Era convinta che questa volta le soddisfazioni sarebbero arrivate, invece dopo aver inviato migliaia di curricula, aveva ricevuto risposte solo per lavori a percentuale, part time, a progetto, collaborazioni varie in ogni angolo d’Italia.
Aveva 30 anni compiuti e si sentiva terribilmente vecchia, non per l’aspetto, di quello non gliene era mai importato un fico secco, ma troppo grande per poter trovare un lavoro decente che l’avrebbe soddisfatta, che avrebbe esaudito la sua voglia di ascesa personale e professionale.
Ormai non lavorava più da due anni ed il suo conto era più in rosso dell’inferno; tutti richiedevano esperienza, che lei non aveva e una conoscenza ottima delle lingue, cosa che per chi ha frequentato le scuole italiane senza aver mai varcato il confine è un’utopia.
Così pensò ciò che fino ad allora non le era mai balenato nella mente, sfruttare l’unica esperienza che aveva, quella al bar e finalmente trovare il coraggio di attraversare le Alpi, andare in qualche posto in Europa, dove forse sarebbe stato più facile vivere.
La differenza con l’Italia l’aveva avvertita immediatamente, perché le avevano risposto tutti coloro ai quali aveva inviato il curriculum e qualcuno le aveva anche proposto un lavoro immediato ed a tempo indeterminato.
Qualsiasi essere sano di mente avrebbe fatto i salti di gioia, ma non lei, non Carmela, che non era mai riuscita a gioire per nessuna cosa. Aveva un “dono” naturale, distruggere ogni momento piacevole, lei riusciva sempre a trovare qualcosa di negativo, i difetti nella gente, gli errori anche in un’opera d’arte!
Così quando un datore di lavoro le aveva detto: “per me può venire domani con il primo aereo!”, per andare a lavorare in una gelateria sul Danubio, lei era entrata nel panico.
Adesso il terrore non era più la mancanza di lavoro e di denaro, ma ciò che le metteva paura era lasciare la sua Stellina.
Quando aveva deciso di separarsi dal marito, il suo unico pensiero era andato alla serenità di sua figlia e le era parso di essere riuscita a non turbare la tranquillità di Stella, nonostante il padre si fosse dissolto nel nulla, scomparendo quasi totalmente dalla sua vita.
Ma adesso che era riuscita a fare sia da padre che madre, a colmare quel vuoto nella vita della figlia, dove avrebbe trovato il coraggio di abbandonarla?
Sapeva bene che qualsiasi sacrificio avesse fatto, era necessario per entrambe, ma non credeva che Stella riuscisse a capirlo o forse era solo una giustificazione perché non trovava il coraggio per fare un altro, l’ennesimo, salto nel vuoto, barcollando ancora un volta nel buio.
Ad un tratto cominciò a pensare che la figlia non avesse bisogno del denaro, ma aveva necessità della sua presenza, del suo amore, del suo sostegno, anche se in questo periodo sembrava non esserne più capace, era come se i troppi pensieri negativi non le dessero modo di essere la mamma buona, amorevole e completamente dedita alla figlia, come invece era sempre stata.
Ad un tratto non le importava niente del consumismo, dei soldi, né del dover dimostrare alla gente quanto valeva; adesso capiva che il senso della sua vita era dare pace e amore a quella creatura che aveva deciso di mettere al mondo.
Anche un trasferimento della figlia insieme a lei le era sembrato impensabile, stravolgerle la vita proprio non le andava giù, sapeva che le avrebbe fatto troppo male, le avrebbe scombussolato ancora una volta tutti gli equilibri, avrebbe perso tutti gli amichetti e non conoscendo nessuna lingua straniera sarebbe stato davvero difficile trovarne altri.
D’altronde mamma e figlia, dopo la separazione, erano andate a vivere nella casa natale di Carmela, dove Stella godeva dell’amore dei nonni e le zie, quindi una sua partenza e assenza, sarebbe stata ammortizzata dall’affetto della famiglia.
Un secondo pensava che avrebbe dovuto accettare e partire subito, il secondo dopo che non doveva lasciare la sua terra, che tutto si sarebbe sistemato.
Le sembrava che la testa stesse per scoppiarle e non riusciva più a ragionare in maniera obiettiva.
Forse ciò che le faceva più paura era la solitudine che avrebbe dovuto affrontare, lasciarsi tutto alle spalle e partire, senza nessun appoggio, nemmeno morale, lei che era abituata al caos, alla confusione, alle urla, alle risate di una famiglia numerosa e chiassosa, avrebbe dovuto prepararsi al silenzio, alla noia e ciò la terrificava.
Così pensò di portarsi un pezzo di casa, ecco perché stava cercando di convincere a tutti i costi Maria, l’unica che poteva spostarsi, non aveva legami, niente la tratteneva lì, ma lei sembrava proprio non volerne sentire, continuava a giocherellare con il cellulare e Carmela avvertiva che non la stava più ascoltando già da un bel po’.
“Ok, ok, mi hai convinta sorellona! Adesso però mi aiuti a scegliere il vestito da indossare stasera? Con i miei amici andiamo in un disco pub, perché non vieni pure tu? Così ti svaghi e la smetti di pensare sempre alle stesse cose, stai diventando più pallosa che mai, mi sembri la nonna!”.
Carmela capì allora che parlare con Maria era del tutto inutile, non le rimaneva che aspettare che i genitori l’avessero buttata fuori di casa, magari a quel punto avrebbe ascoltato!
Forse hanno preso l’ultimo caffè assieme. Si sono salutati e poi si sono infilati nella folla di sconosciuti che a volte circonda gli addii. E ora ciascuno se ne va per la sua strada, con l’inquietudine di chi non sa stare da solo, ma con la consapevolezza che devono anche smetterla di perdersi l’uno per l’altra.
Luca: Segue la scia della gente nel dedalo di strade che si incrociano oblique. Con lo sguardo fruga nei visi delle persone per andare al di là delle apparenze, alla ricerca di un segno che lo faccia risalire dal baratro in cui gli pare di essere precipitato. Ma i volti che gli scorrono accanto sono impenetrabili, macchie dai contorni sfumati. Ora sa che le occasioni, così come si creano, si perdono, e questa certezza gli si rivela con dolorosa chiarezza. A volte si rimane in bilico, nella consapevolezza di essere diverso dall’altro, ma anche uguale. Lui ha sempre vissuto così, attratto eppure spaventato dal contatto con chi gli stava attorno. E a volte perfino da se stesso. Il fatto è che si è diversi pure da come si era un attimo prima, si cambia senza neanche rendersene conto. Se solo ci fossero specchi per l’anima per seguirne in tempo reale i mutamenti.
Gloria: Si cambia, eccome. Il cambiamento inesorabile di gente che finisce per sfiorarsi senza vedersi, senza capirsi, senza neppure provare a riconoscersi. Non più. Gloria è rimasta ferma per un istante sul bordo del marciapiede, a osservarlo mentre si allontanava, poi ha attraversato la strada per entrare nei grandi magazzini, confondendosi nella massa dei clienti che a quest'ora si muovono curiosi e indolenti tra gli stand. Assimilarsi alla folla, in fondo, è quello che vuole davvero in questo momento, le costerebbe troppa fatica e troppo impegno distinguersi dalle tante anime perse che si aggirano in questo luogo di caotiche ed effimere sicurezze, e rischiare di riconoscere tra le altre la sua.
Luca: Si toglie giacca e cravatta, e avverte la stessa sensazione che proverebbe se gli avessero tolto una camicia di forza. È quasi come tornare a respirare dopo essere stato in apnea. Con la coda dell’occhio ha visto Gloria infilarsi nella porta girevole del negozio. La segue. D’istinto cerca di mimetizzarsi nella moltitudine che lo circonda, per poterla pedinare da lontano in quella babele di gente. Ma troppe cose lo distraggono: oggetti, luci, signore, ragazzine, commesse, famiglie. Per un po' riesce a distinguerla, anche se è distante, ma non vuole essere notato. Si ferma a uno stand al primo piano e acquista un maglione rosso; si fa togliere l’etichetta, paga alla svelta e se lo butta sulle spalle, senza indossarlo. Infila la giacca e la cravatta nella busta che la ragazza alla cassa gli dà assieme allo scontrino. La cerca di nuovo nella confusione, ma non la vede più. Chissà se è ancora lì, si chiede.
«Sia cortese, me dia una mano, non riesco a trovare la misura delle canottiere de cotone per mio marito». È una donna florida e piacente, che gli si para davanti con un mezzo sorriso.
Gloria: Le scale mobili, quasi una metafora della vita - gente che sale, gente che scende, persone che si guardano di sfuggita senza vedersi davvero. Poi c'è sempre chi ha più fretta degli altri e ti spinge da una parte per farsi largo. Però... Riflette su queste inezie quando, dall’alto della scala mobile che scende dal reparto dell’abbigliamento femminile, vede una strana coppia in quello della biancheria maschile, al piano inferiore. La donna, grassoccia e dall'aria gioviale, sta misurando una canottiera di quelle che non usa quasi più nessuno, bianca, senza maniche e scollata, sul busto di un uomo dall'aria familiare. Non può essere lui: lo ha visto dirigersi verso il labirinto di viuzze, e poi era vestito in modo diverso, portava quella che è diventata la sua divisa da lavoro: completo grigio scuro, camicia azzurra e cravatta, non sempre dello stesso colore, ma rigorosamente regimental. Quel maglione non lo aveva mai visto. Rosso, poi. Risalta nel grigiore dell’ambiente, dall’arredo impersonale e minimalista, ed è una nota quasi eccentrica, fuori luogo. No, Luca porta sempre colori che lo aiutino a mimetizzarsi, non può essere lui. Forse è soltanto un cliente che gli somiglia molto. Forse.
Luca: Dopo l’acquisto estemporaneo torna a confondersi fra la folla a cui prova a conformarsi, cercando di fare le stesse cose che fanno gli altri, a guardare cose di cui a lui è sempre interessato meno di niente. Ma è per comprare che si va ai grandi magazzini, e allora lui compra e guarda comprare. E continua a cercare con gli occhi quella che fino a qualche minuto prima era ancora la sua donna. Non si accorge che la scala mobile è arrivata al piano e inciampa, finendo lungo disteso per terra, senza scampo. Crolla sul gomito già malandato a causa di una brutta caduta da cavallo di qualche anno prima, non riesce a trattenere un grido di dolore.
Gloria: Davanti a lei ci sono un ragazzo e una ragazza in tuta e scarpe da ginnastica: hanno l’aria stanca e distesa che si ha dopo aver svolto un’attività fisica. Devono essere andati a correre nel parco, non lontano dal centro. Anche lei una volta si allenava con regolarità: ai tempi dell'università partecipava anche a qualche gara. Poi era arrivato lui e, a poco a poco, l'aveva distolta da tutti i suoi interessi. Quasi tutti. Le era rimasto il cinema: spesso nelle ore pomeridiane, con la scusa della spesa, se ne andava via di casa da sola e passava il tempo dentro una sala a vedersi l'ultimo film uscito. Quando aveva capito che starsene per conto suo, in un cinema spesso vuoto, di pomeriggio, era un modo per evadere dalla vita con lui, aveva iniziato a maturare l'idea di lasciarlo. Questa ossessione si era insinuata con prepotenza nella sua testa, come un tarlo ostinato e incontrollabile, finché aveva penetrato ogni fibra del suo cervello, e allontanarsi da quella casa e da quell'uomo era diventato un assillo, un chiodo fisso.
«Signora mia, ma che è successo? Guardi ‘npo' là quanta gente! E che sarà mai?», è la signora grassoccia che ha visto poco prima con l’uomo del maglione.
«Non saprei, ho sentito che chiamavano l'ambulanza, forse qualcuno si è sentito male.»
«Eh, nun se pò mai stà tranquilli, e che te pare?!», e nel dirlo scuote la testa piena di ricci rossi di henné.
Intanto gli addetti alla vigilanza stanno aiutando qualcuno ad alzarsi. È Luca.
«Ah signò, ma io quello lo conosco! 'n signore tanto ammodo, je parlavo proprio n’attimo fa!»
«Ah sì? Chissà cosa è stato…», pronuncia queste parole con tono neutro, attenta a non tradire alcuna emozione.
«Ma che ne so!? Ma guarda che je doveva capità, porello. Però io vado a véde. Magari je serve ‘na mano…»
Lei rimane in disparte, ha cura di non farsi notare da lui. Tanto se la caverà. E intravede che barcolla, mentre i vigilantes chiedono spiegazioni; un fazzoletto spuntato dalla tasca di una commessa gli tampona il sangue sulla fronte: deve essersi ferito cadendo.
Poi lo perde di vista, è nascosto da un capannello di gente. L’istinto sarebbe quello di andare lì, di non lasciarlo da solo, di soccorrerlo, ma si trattiene. «Ce la farà, deve farcela. Lasciarmi coinvolgere proprio adesso no, non adesso …». Lo sa, poi si darà della codarda, magari anche della cinica, ma volterà pagina, dimenticherà anche questo sapore di irrealtà. Sia quello che sia, rimane al coperto.
Torna la signora dai capelli rossi, emozionata, affannata, col seno debordante che sembra scoppiare dentro la giacca attillata.
«Porello! Nun ce se crede! La faccia piena de sangue. Ma che je sarà capitato?! Se sarà sentito male!».
Lo accompagnano all’ambulanza, che nel frattempo è arrivata. Lei lo scorge di spalle, il compagno con cui ha condiviso amore, sogni, speranze, tempo, lavoro, liti, sacrifici, noia; un uomo forte e debole, normale, uno come tanti, una brava persona, mediocre, a volte speciale, comune, egoista, sì, proprio uno come tanti, consumato dalla vita. Come lei, in fondo. Ma un uomo con cui le fa paura invecchiare.
Lascia che tutto le scorra davanti, il peggio è passato, lui ormai è sull’ambulanza. Resta qualcuno della direzione. «Tranquilli, non è successo niente. Un piccolo incidente, ora è tutto a posto.».
Lei si avvia verso l’uscita. Prova sollievo nel ritrovarsi all’aperto, tra la solita gente che affolla le vie, ordinaria, consueta. Cerca di cancellare dalla pellicola della mente le immagini che vi si sono appena impresse, la scena di qualche attimo prima, per tornare a concentrarsi su di sé. Attraversa la strada e si ferma di fronte al bar del loro ultimo incontro. Pesca il cellulare nella borsa e cerca il numero in rubrica: «Radiotaxi? Sono al bar del Corso, vicino ai grandi magazzini.».
Non entra di nuovo nel locale, si limita a guardarlo da fuori. Nessuna nostalgia. Solo poco più di mezz’ora prima erano stati lì insieme, lui con la sua aria di sufficienza da professionista affermato, e lei con il tailleur d’ordinanza e la solita grande borsa sulla spalla, piena di tutti gli oggetti che sono un po’ il riassunto della sua vita; lei con l’aria di una donna senza più rinunce, a vivere quello che doveva essere un saluto o un addio, pieno di cose non dette e tenute in fondo al cuore, di spiegazioni non date, e rese tuttavia palesi dalla familiarità. Anche se resta sempre qualcosa da spiegare, si arriva comunque, in modo ineludibile, al punto in cui non serve più parlare, perché ogni parola diventa fumosa, una falsa pista, una frettolosa menzogna.
Sembra passato un tempo infinito. Una parte del suo percorso, diventato ormai troppo arduo e tortuoso, è alle spalle. Davanti s’intravede un sentiero nuovo, di sicuro incerto, nebuloso, ma è lì che aspetta di essere battuto.
Il taxi è arrivato, è in attesa vicino al marciapiede: lei vi sale senza guardarsi attorno. I suoi bagagli sono già al deposito.
Allo sguardo interrogativo del tassista, con voce ferma, senza ombra di esitazione, comunica decisa: «Alla stazione.».
Altro...
«Si sta proprio bene qui, eh?!»
Assorto com’è nei suoi pensieri non si è neanche accorto che qualcuno si è seduto vicino a lui sulla panca. È un uomo anziano, molto, con una giacca forse troppo pesante per la temperatura primaverile. In testa ha un basco blu, di quelli che portavano gli operai negli anni ’50, anche suo padre ne aveva uno. Gli occhiali non riescono a nascondere un occhio offeso, forse cieco, fisso e senza espressione. Gli ricorda qualcuno, ma non riesce a metterlo a fuoco tra le poche immagini della sua vita passata rimaste impresse nella memoria.
«Buongiorno. Sì, si sta bene.», risponde un po’ scostante. Vorrebbe godersi quei momenti da solo, non vuole condividere con nessuno il grumo di sensazioni che gli è salito in gola da quando è arrivato in questo luogo.
L’uomo lo scruta, come fanno a volte gli anziani, senza pudore e senza timore di creare imbarazzi, sembra deciso a capire con chi ha a che fare. Forse abita da queste parti, pensa lui, ma se anche fosse non può essere salito fin quassù a piedi, sono più di due chilometri da qui al paese, non ce l’avrebbe fatta.
»Non ti ho mai visto qui. Sei un turista?», chiede curioso, con un tono di familiarità che lo spiazza. Non sa cosa rispondere. Turista? Dopo tanti anni magari sì, lo è, sebbene l’idea un po’ gli ripugni. D’altra parte non può neanche più pensare di appartenere a questo luogo. Qualcuno – una donna? - qualche tempo fa lo ha definito cittadino del mondo, e lui si è sentito lusingato. Ora l’espressione gli pare un po’ stupida. Incoerente. Straniante. Però non sa cosa rispondere.
«Lei è di qui?», chiede di rimando, le parole escono in modo quasi involontario.
«Sì. Abito giù in città, ma vengo qui quasi tutte le mattine a respirare aria buona.», risponde l’uomo con aria complice e un po’ compiaciuta. « Prendo il pullman proprio davanti a casa mia,» continua, «e passo un paio d’ore fuori dal mondo e dal traffico». Gesticola nel parlare, muove le mani in modo nervoso, a scatti. Lui ha ancora la strana impressione di averlo già visto, sente che non gli è del tutto estraneo.
«È un bel posto, ci venivo spesso da bambino e da ragazzo.», dichiara, più per dare soddisfazione all’anziano compagno, imprevisto e inatteso, che perché ne abbia davvero voglia.
«Ma allora sei proprio di qui! Dovrei saperlo chi sei! Conosco tutti in città, sai, col mio lavoro non immagini quanta ne ho vista di gente!». Nell’unico occhio capace d’espressione balenano in un istante nostalgia e rimpianto.
«Ah sì? E che lavoro faceva?». Gli dà ancora del lei, lo sente che stona, in fondo neanche lui è più un ragazzo e il vecchio gli ha dato subito del tu. E poi si rende conto di non riuscire a infondere alle sue parole la benché minima traccia di calore, è rigido e distaccato tradisce il fastidio iniziale per l’irruzione dell’estraneo.
«Avevo un’edicola all’inizio del quartiere Castello e, prima ancora, consegnavo i giornali a domicilio.», risponde pronto l’anziano, che sembra non rendersi affatto conto della sua freddezza.
Era il quartiere dove abitava lui. Ora il ricordo affiora nitido: quest’uomo ha portato il giornale tutte le domeniche a suo padre per anni, loro abitavano al piano rialzato e suo padre prendeva il giornale e gli dava il denaro dalla finestra. E poi, da bambino prima e da adolescente poi, è nella sua edicola che lui ha comprato l’Intrepido per sé e La domenica del Corriere per suo padre, tutte le settimane.
La pineta sarebbe la stessa, riflette sollevando lo sguardo, se non fosse per il chiosco proprio lì, accanto alla panchina su cui sedeva sempre per riposare dopo la passeggiata, e su cui è seduto anche adesso. Tornare in questa città, quasi cancellata dallo scorrere brutale degli anni, gli era sembrata la cosa giusta da fare per rimettere un po’ di tasselli in ordine e ridare alla propria vita la prospettiva giusta. Nell’ultimo viaggio a Monaco, durante una passeggiata con dei colleghi tedeschi nei boschi attorno alla città, a un certo punto gli era sembrato di essere proprio lì, tra quegli abeti, dove aveva passato tanto tempo da ragazzo, arrivandoci spesso anche a piedi, dopo aver lasciato la moto vicino alla stazione, per inerpicarsi lungo la Via Crucis che procedeva in salita fino a un chilometro circa dal bosco. Il pezzo più duro era proprio quel tratto di strada asfaltata, che doveva affrontare prima di buttarsi nel labirinto di sentieri che aveva imparato a conoscere così bene. Le prime passeggiate le aveva fatte con suo padre, da bambino: partivano a piedi, mentre sua madre e sua sorella andavano in pullman. Il luogo dove si fermavano per il picnic, sempre lo stesso, era un’area attrezzata dove a volte accendevano anche il fuoco per il barbecue. E, giunti in pineta, loro due sceglievano il tavolo migliore e lasciavano una tovaglia o uno zaino per segnalare che era occupato. Di ritorno dalla loro passeggiata trovavano la madre e la sorella che si organizzavano per il pranzo.
Non ricorda neanche più l’ultima volta che è stato in questa città, che non sa più se è ancora la sua. Aveva quasi dimenticato di averne una. Dopo la laurea e i corsi di specializzazione era cominciato il suo peregrinare da un punto all’altro del mondo, che lo ha portato molto in alto nella professione, certo, ma, ora se ne rende conto, gli ha anche tolto molto. Più di quanto voglia ammettere. Conosce un numero incalcolabile di persone, ma poi, alla fine della giornata, è solo con se stesso e i suoi assilli: la sua rete di rapporti ruota intorno al lavoro, ma sul piano personale c’è il vuoto assoluto, un deserto in cui sa di essersi inoltrato in piena consapevolezza, ma da cui non sa più come uscire. Non riesce a farsi tornare in mente i motivi per cui ha perso i contatti con sua sorella, forse non ve ne sono: alla morte dei genitori, a un anno l’uno dall’altra, è stato come se si fosse spezzato l’unico legame che li teneva insieme. Lei ora vive con la sua famiglia in un paese qui vicino, si fanno gli auguri per le feste e i compleanni ma, se la incontrasse, forse stenterebbe anche a riconoscerla, si sa che il tempo cambia le persone: non si vedono da più di dieci anni. Dei suoi due nipoti, gli unici che abbia, conserva ritratti dai contorni sfocati, che risalgono ai tempi dei funerali dei nonni. Del cognato ricorda sì e no il nome. Si è sottoposto a un processo di straniamento graduale e forse irreversibile e, di colpo, sente di non appartenere a nessun luogo. Neanche a questo.
Vorrebbe dire due parole di cortesia al vecchio giornalaio, ma quando si gira non c’è più: deve essersi alzato mentre lui si perdeva nel groviglio dei suoi pensieri. Alza lo sguardo e lo vede allontanarsi a passo lento, un po’ curvo, verso quella che sembra una fermata del pullman. C’è una panchina anche lì: si sorprende a pensare con sollievo che non dovrà aspettare in piedi, potrà sedersi. Suo padre ora avrebbe più o meno l’età di quest’uomo. Sarebbe fiero di lui quell’operaio orgoglioso che conosceva tutti i romanzi di Giovanni Verga e comprava il quotidiano solo la domenica perché gli altri giorni non aveva tempo per leggerlo. Sarebbe fiero del suo successo, si sentirebbe ripagato dei sacrifici. Ma non sa più dove andare a cercare neanche lui, perfino le sue tracce sono state cancellate dalla successione implacabile di stagioni smemorate.
Si alza quasi senza rendersene conto e si avvia verso l’auto parcheggiata più in là. Si prepara a rientrare nella sua vita di sempre, un’esistenza appesa al filo inconsistente di un’identità precaria, l’unica che ha, adesso. Se in autostrada non c’è troppo traffico forse stasera potrà usare i due biglietti del teatro che gli hanno regalato. Gli basterà cercare un nome nella rubrica per trovare qualcuna con cui condividerli, si tratta di una commedia di Neil Simon, è sicuro che non sarà difficile.
Martina Ini - Lo Straniero
Scritto da Jona Editore-Che mal di testa atroce-pensai intento nello svegliarmi e alzarmi di malavoglia da quello che mia mente. Ieri sera ero andato alla festa della mia attuale azienda per cui lavoro: una misera struttura in cemento a quattro piani di cui i primi erano occupati da degli squallidi e insulsi uffici. I miei colleghi, se così posso definirli, erano mediocri e banali tanto quanto lo erano le loro vite: classici padri o madri di famiglia che si spaccavano la schiena tutti i giorni al fine di portare a casa la pagnotta e offrire una “vita felice e spensierata”ai figli.
Quella sera, il nostro capo aveva deciso (in uno sprazzo di sua generosità improvvisa) di organizzare una festa,per celebrare l'avvenire delle ferie. Ricordo ancora le quantità spropositate di cibo accumulate sulle scrivanie, fiumi di alcol che fuoriuscivano dalle bottiglie di chissà quali spumanti scadenti appena comprati in un supermercato della zona, e gli uomini che doveva essere stato prima il mio letto. Ma cosa era successo ieri sera?Ah si ora ricordo. Mentre mi dirigevo in cucina, un violento flusso di immagini,suoni e voci occupò letteralmente la non facevano altro che rimorchiare le colleghe. L'unico momento in cui potei affermare di essermi divertito fu quando rividi lei, Charlotte. Era stata una mia ex collega durante il periodo dello stage universitario, venne licenziata perché il capo scoprì la nostra relazione, chiaramente una clausola aziendale vietata dal medesimo contratto di lavoro.
Quella sera era davvero stupenda: la sua chioma dorata era raccolta in una treccia, il suo fisico snello e asciutto era avvolto da un vestitino rosso sgargiante; su un'altra ragazza sarebbe risultato volgare ma su di lei era perfetto,quasi come se fosse stato realizzato su misura. Il suo viso era radioso, valorizzato solo da un po' di mascara e un tocco di lucidalabbra e ai piedi portava dei tacchi non esageratamente alti del medesimo coloro del vestito.
Devo essere sincero, avrei voluto passare tutta la notte con lei ma finii solo per bere litri e litri di spumante e tornarmene a casa solo. Non avevo propria voglia di compagnia quel giorno.
Mentre il caffè stava salendo all'interno della moka, presi un'aspirina e nel frattempo ammirai la pioggia che batteva contro i vetri. Gocce infinite si scagliavano sul paesaggio come proiettili,sembrava quasi volessero far sciogliere i colori della città come se fosse un quadro di acquarelli.
Pioveva anche durante il funerale. L'anno scorso,morto mio padre,dovetti occuparmi dei preparativi del funerale,sebbene non avessi tutta questa gran volontà. Quel giorno diluviava a dirotto,per fortuna mia madre aveva scelto di far cremare il corpo per cui ci ritrovammo nella cappella del Père-Lachaise ad assistere al rito. Francamente, non mi sforzai nemmeno nel vestirmi in maniera elegante. Perché fare bella figura per un morto?Ma soprattutto perché farlo per un uomo che non si è mai comportato da padre e da marito?Avevo optato per una semplice giacca nera con camicia abbinata,jeans sbiaditi e delle scarpe scure. Mia madre, a malincuore, mi lasciò prima del dovuto a causa di un brutto male. Ricordo ancora il prete che pronunciava una litania sull'ascesa di Mario Curatti alla Casa del Signore e l'odore nauseante dell'incenso che mi pervadeva le narici,provocandomi un senso di nausea. Mario Curatti era un immigrato italiano. Si trasferì dalla città di Bologna per continuare nella sua attività di calzolaio. Durante il periodo di una calda e soleggiata estate parigina, conobbe mia madre la quale si innamorò delle maniere gentili e amorevoli di quello stupendo straniero. Sfortunatamente, la vita non è una favola e ben presto mia madre se ne rese conto;mio padre non si presentò mai a nessuno degli eventi più importanti della mia vita. Si perse ogni mio compleanno, festeggiamenti di diploma e laurea e, dolcis in fundo, tradì mia madre con molte donne.
Ridendo, però, pensai che nonostante io avessi speso tutte le mie energie ad odiarlo alla fine mi ero trasformato nel mostro in cui era stato pure lui. Avevo avuto delle amanti, ma con Charlotte era diverso. È vero, lei voleva approfondire il nostro rapporto ma io non me la sono mai sentita di legarmi completamente a lei. Forse perché avevo semplicemente paura di farla soffrire come fece mio padre con mia madre. O forse no?
Dopo la cerimonia, Charlotte si era presentata sotto ad un enorme ombrello nero che si intonava alla perfezione con il lungo vestito che sbucava da sotto l'impermeabile chiaro. I capelli erano raccolti in uno chignon. Sembrava un angelo dalle fattezze umane. Venne verso di me tenendo in una mano l'ombrello e dall'altra un pacchetto.
Con tono sarcastico le dissi: “Ah questo è un bel modo per celebrare la dipartita di mio padre”
“Non scherzare, ti ho fatto questo regalo perché so che potrebbe aiutarti.”
“Mi spiace. Non sono dell'umore per ringraziare un atto di compassione.” dissi in maniera sincera
“Non ti preoccupare”affermò avvicinandosi sempre di più a me. Si mise in punta di piedi, mi accarezzò una guancia e mi posò un lieve bacio sulle labbra. Adoravo il suo profumo fruttato,niente a che vedere con l'incenso di prima.
“Vieni a casa con me. Ho davvero bisogno di avere qualcuno accanto adesso”
“Jean...non lo so”
“Ti prego” e guardandomi con i suoi grandi occhi azzurri, annuì esclamando solamente “va bene”.
Arrivati alla mia macchina, salimmo sopra di essa e in pochi secondi ci ritrovammo a sfrecciare sull'asfalto come ad una gara di auto da corsa. Giunti nel mio appartamento,non riuscii più a controllare i miei istinti. Avevo bisogno di sentire il suo calore.La presi per un polso e la trascinai in camera mia, le sciolsi lo chignon e,mentre la baciavo come un ossesso, le tolsi l'impermeabile e il vestito. Se ripenso ancora a quell'episodio, mi sembra di risentire i suoi gemiti. Lasciandola sul letto inerme e senza vestita, potei ammirare la perfezione del suo corpo: i seni non troppo grandi erano in armonia con il resto della sua fisicità minuta e il candore della sua carnagione la faceva apparire ancora più eterea. Mi sentivo quasi in colpa nel profanare quella splendida creatura ma, fu lei a farmi accogliere tra le sue braccia. Facemmo l'amore per tutto il pomeriggio; sentii Charlotte raccogliere da terra il pacchetto che prima, nel momento della piena passione, avevo scaraventato sul pavimento della camera.
“Non vuoi aprirlo?”mi domandò curiosa
“Certo,se mi dici che possa aiutarmi”strappai la carta e con mio stupore mi accorsi che era Lo Straniero di Albert Camus.
“Incredibile, tu si che mi conosci bene”dissi rivolgendomi a Charlotte sorridendole
“Forse,potrà farti riflettere.”
Riflettere. Riflettere su cosa?Sul fatto che la mia vita è patetica tanto quanto quella di qualsiasi altro essere umano?Mentre stavo seduto al tavolo a sorseggiare il caffè, avvicinai il libro che avevo lasciato sul tavolo davanti a me. L'avevo finito ormai. Charlotte aveva ragione, dovevo riflettere su me stesso e,grazie alla dettagliata descrizione di Camus, capii che io e Meursault non eravamo poi così diversi. Ciò che mi colpì di più, fu l'ultimo capitolo in particolare l'ultima frase. Presi il libro e lo aprii all'ultima pagina, avevo sottolineato la frase affinché fungesse da promemoria:”Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio”. Nonostante sapeva che sarebbe morto, Meursalt rimaneva sempre indifferente alla possibile reazione della gente e, anzi, sperava che venisse accolto con il loro odio. Probabilmente era su questo che Charlotte voleva che riflettessi, ma come si può cambiare un pensiero?Certamente, se mi fossi deciso ad auto-psicanalizzarmi ma sinceramente non ne avevo intenzione. Non mi importava come Meursalt se Charlotte si fosse improvvisamente innamorata di qualcun altro o se ad esempio dopo quella giornata piovosa sarebbe tornato il sole.
Richiusi il libro e, finendo di sorseggiare la bevanda calda e scura, mi limitai ad osservare la pioggia che cadeva. In maniera del tutto indifferente.
Salvatore Gagliarde - Lo Straniero
Scritto da Jona EditoreNessuna emozione, nessun batticuore, nessun coinvolgimento in alcunché. Nessun sussulto, nessuna gioia e nessun dispiacere.
Un lavoro che non amo, che non mi sarei mai sognato di fare, che non mi da nessun problema e che mi impegna poco ma che toglie dignità alla stessa parola “lavoro”, tanto è monotono, ripetitivo e sterile.
Nessuna attività, niente sport, nessun divertimento. Poca vita sociale e solo ambienti monotoni e poco frequentati. Rapporti interpersonali limitati a poche persone per le quali ormai provo solo… odio? Non posso permettermelo. Indifferenza.
Donne, mai.
Non sono l’unico, vi starete dicendo, tante persone che conoscete vivono certamente una vita così e nonostante tutto tirano avanti con rassegnazione e dignità. Certo.
Possono combatterla però, sperare nel futuro o concedersi una saltuaria e fugace via di scampo.
Io no.
Ma non è stato sempre così, anch’io ho visto giorni migliori.
Ottimismo e gioia di vivere sono state le mie compagne fino ai trent’anni, e la vita è stata buona con me, fino ad allora almeno, e guardandomi intorno mi ritenevo persino fortunato, arrivando talvolta a vergognarmi un poco, tanto le cose mi andavano schifosamente bene.
E poi.
Poi ho donato il mio cuore ad una donna.
Mi era già capitato di innamorarmi ma questa volta ero sicuro di aver trovato quella giusta. E che sarebbe durata per sempre.
Ero sicuro che sarebbe stata la madre dei miei figli, volevo che lo fosse.
Eravamo una coppia strana, noi due. Io, lo straniero, alto e forte, sorridente, un po’ orso e un po’ buffone. Lei minuta, di un pallore lunare, gracile e indifesa, anche nello sguardo.
Malformazione cardiaca congenita.
Le era stata diagnosticata nella prima infanzia ed aveva segnato tutta la sua esistenza, impedendole sin da bambina di vivere una vita normale. Con gli anni si era addirittura aggravata. Il suo già debole cuore non si sarebbe mai sviluppato regolarmente, mentre lei continuava a crescere, sempre più delicata e sempre più in pericolo.
Io lo seppi quando eravamo già insieme da qualche settimana, ed ero già cotto come un adolescente alla prima esperienza.
Forse proprio per quello me ne innamorai.
Per i suoi sorrisi rari e venati di tristezza.
Mi sono sempre innamorato di donne che erano in realtà uccellini con un’ala spezzata.
Dopo sei mesi fantasticavamo di matrimonio e di bambini e dopo un anno eravamo pronti al grande passo. Quasi pronti.
In realtà sapevamo entrambi, pur senza averne mai parlato apertamente, che non avrebbe retto a lungo. L’emozione del matrimonio, l’allontanamento dalla famiglia, una qualsiasi forma di stress avrebbe potuto causarle serie complicazioni.
Che potesse reggere una gestazione o dare alla luce un bambino non era neanche pensabile. Ma era quello che più di ogni altra cosa al mondo desiderava, lo sapevamo entrambi. Per me era lo stesso, naturalmente, ma pur di continuare ad averla accanto avrei rinunciato a qualsiasi cosa.
Non ne parlavamo mai, forse perché non c’era nulla che potessimo fare, ma quel silenzio stava diventando un muro tra noi due. Lo sentivo, quasi palpabile.
Allora presi la decisione. Ero giovane, forte, con un carattere riflessivo che non lasciava però troppo spazio ad emozioni violente o a turbe psicosomatiche.
Potevo cambiare lavoro, rinunciare a tante cose che in quel momento, rispetto alla prospettiva di avere una famiglia, vedevo come futili e prive di importanza.
Avrei resistito. Soprattutto avremmo potuto rendere realtà i nostri sogni, essere una famiglia, ed avrei avuto lei, con me, per il resto dei nostri giorni.
L’idea mi accarezzava già da un po’, ma osai parlargliene solo quando fui sicuro, quando avevo già deciso.
Quando glielo proposi, ma forse dovrei dire glielo comunicai, mi ascoltò in silenzio e così rimase per qualche minuto dopo che ebbi finito di parlare, con gli occhi bagnati e sulle labbra il sorriso triste di cui mi ero innamorato.
Non disse nulla, non mi chiese perché, solo annuì, mi prese una mano tra le sue, la baciò, ed infine vi posò una guancia, sul dorso.
Mi mossi con discrezione ma con risolutezza. Avere una buona condizione finanziaria risulta determinante in alcune situazioni. Bastarono alcune conoscenze, un geniale cardiochirurgo molto impegnato nella ricerca medica e sensibile ad argomenti con otto zeri, un mese e mezzo di ferie ed un viaggio aereo fino ad un piccolo stato del sud Africa, spacciato ad amici e parenti come la nostra prima vacanza insieme.
Trapianto cardiaco incrociato, lo definiva il nostro dottor Frankenstein parlandocene.
Tanto per tranquillizzarci ci fece firmare, oltre naturalmente al congruo assegno, una liberatoria (ovviamente una cartaccia “inter nos” che non sarebbe mai risultata da nessuna parte, tranne nel caso in cui gli fosse stata utile…) nella quale dichiarammo di assumerci la responsabilità di sottoporci ad un intervento da lui sconsigliato. Scrupoloso, il taglia e cuci.
Ma meritò quei soldi fino all’ultimo centesimo.
Risvegliandomi dall’anestesia ebbi la sensazione di risvegliarmi da un sonno febbrile, ma dopo pochi minuti ero perfettamente conscio e consapevole, anche se un tantino intubato. All’infermiera che mi assisteva, immediatamente chiesi dell’acqua e chiesi di lei. Non esattamente in quest’ordine.
Si era già risvegliata da più di mezz’ora e stava bene, quasi meglio di me.
Grazie a Dio, il peggio era passato, pensai.
Non bisognerebbe mai pensare dopo un’anestesia.
Probabilmente fu soltanto qualche mese dopo la completa guarigione che incominciò il distacco. Ma ripensandoci in seguito, giorno dopo giorno, sposto sempre più indietro nel tempo il momento in cui iniziò ad esplorare il mondo senza di me: non quando alla fine conobbe qualcun altro, cosa che puntualmente le lessi in viso immediatamente, non quando annunciò che sarebbe andata in vacanza con i suoi nuovi amici, non quando si iscrisse ad un corso di balli latini, non quando andò alla prima festa senza di me. Non quando restò fuori a pranzo la prima volta e nemmeno quando, qualche tempo prima, incominciò ad uscire per fare la spesa tutte le mattine. Per avere sempre in frigo roba fresca. Non quando mi confidò che il mondo le sembrava così diverso adesso… no.
Al momento faccio risalire quella data al giorno in cui per la prima volta uscì a fare una passeggiata, giusto una mezz’ora, da sola.
Tra qualche tempo lo identificherò con il momento in cui ci presentarono.
Non mi fa più male pensare a lei. Non lo meriterebbe, in ogni caso. Credo che in fondo non mi abbia mai amato davvero. Semplicemente, ero tutto ciò che la vita le aveva messo davanti fino a quel momento. Non aveva mai avuto la possibilità di conoscere altro e si era limitata a raccogliere ciò che il vento aveva portato fino ai suoi piedi.
In verità sul momento ci stavo male da cani. Ma lo tenevo per me, non osavo parlarne per non essere meschino, per non farla sentire in colpa. Del resto non mi aveva chiesto niente, l’idea era stata mia. E poi temevo che dare voce all’amarezza e ai timori avrebbe potuto nuocere a me stesso.
Nessuna emozione, nessuna sollecitazione, nessuno stimolo brusco. Questi gli ordini del medico. La più piccola trasgressione avrebbe potuto significare crisi cardiaca, infarto. La quercia era stata privata delle sue radici. Naturalmente mangiare poco e con regolarità, ma solo cibi “sani”. Bleah.
Non potevo nemmeno berci sopra!
Avevo già lasciato il lavoro che adoravo e che mi aveva portato a girare il mondo più volte, e mi limitavo a scrivere articoli per una rivista specializzata e manuali tecnici, saltuariamente.
I miei hobby e lo sport… beh, quella era ormai roba da dimenticare. Tanto più che mi ero scelto delle attività non proprio sedentarie. Che razza di scavezzacollo ero stato, nella mia vita precedente.
Gli amici erano l’ultima risorsa rimasta, i miei amici fedeli, che mi portavano a casa un po’ del mondo esterno, il loro mondo. Forse fu colpa mia, magari mi mostravo malinconico, o forse decisero poco alla volta che per il mio bene era meglio non parlare di torta Sacher con il diabetico, ma comunque anche i loro racconti cessarono. Le visite, quelle no. Ancora adesso, dopo due anni, almeno uno di loro, a turno o più spesso insieme, vengono a farmi visita quotidianamente.
Ma certi giorni la loro visita mi ricorda di quei tempi là, ed allora si trasforma in un incubo che fatico a razionalizzare.
Rassegnato? Non ci si rassegna ad una cosa così, e se mi chiamassi Faust l’anima la baratterei per una sola notte insieme a loro come ai vecchi tempi.
E questo è più o meno tutto.
E’ così che ho finito per trascorrere gli ultimi due anni in un limbo di bambagia, condannato a vivere una non vita senza nulla di più di una asettica quotidianità senza via d’uscita.
Ma nel copione non era questa la parte assegnata a me. Ho giocato alla roulette e la pallina è schizzata fuori dalla ruota, lasciandomi privo della speranza di vincere, senza peraltro troncarla espropriandomi di tutto il mio capitale, che comunque non è più mio. E’ sul tavolo. E’ ancora in gioco e nel contempo non lo è più.
Ed è esattamente così che ho deciso di venire qui, oggi, 27 Agosto 2002.
In mezzo a questo trambusto, a questo turbinio di vite.
E mentre attendo, in fila, sento il calore del sole sul viso e ascolto il vociare allegro e leggermente ansioso di chi mi sta intorno.
E sento il ghiaccio che mi porto dentro sciogliersi lentamente.
Le montagne russe più alte d’Europa.
A volte il biglietto del viaggio è davvero a buon mercato.
Volta la Carta - Alfonso Inclima
Scritto da Jona Editore“Mille lire non ti cambieranno la vita, ma possono rivelartela”.
Tutto stava nel tono. Doveva essere misterioso, ma non troppo basso altrimenti nessuno l'avrebbe sentita in mezzo a quel putiferio.
Gliel'aveva insegnato madama Dorè, la donna per cui lavorava, con cui viaggiava e che ormai le faceva da madre.
Ma Angiolina era stanca di vivere le fiere, sentirne il frastuono e dormire nel retro del camper.
Quante coppiette aveva visto correre innamorate dalla signora a farsi predire il futuro. Il segreto stava tutto nel farle andare via contente. Del resto era solo un gioco. Una piccola emozione e qualche frase da ricordare.
Quanto li invidiava. Sentiva parlare d'amore tutte le sere, e si immaginava con il braccio di un bel ragazzo attorno al collo, mentre le chiedeva se volesse lo zucchero filato.