Discussione sulla verità tra Dante e Guido Cavalcanti1

Luogo Firenze.

Anno: intorno al 1290.

Scena: in una stanza di un'accademia poetica fiorentina.

Sono presenti alcuni studenti averroisti che iniziano una disputa e tenzone tra loro.

“Che cos'è la verità?” chiede uno studente ad un altro studente.

“Ciò che non è falso” risponde il secondo.

“E cosa sarebbe allora la falsità?” chiede di nuovo il primo.

”Ciò che non è vero.”

“Bravo per l'eleganza nel fuggir senza rispondere. Una definizione che rincorre l'altra e nessuna delle due veramente definita o spiegata nelle sue funzioni, qualità e substantia.”2 risponde contrariato il primo studente averroista.

“E quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” si difese il secondo studente averroista.

“Potevi rispondere che la verità è luce o allontanarsi dalle tenebre che ricoprono le menzogne, se proprio non avevi nulla di meglio da dire, ma questa è una domanda che ho posto io e non sono io che devo necessariamente rispondere a ciò.” rispose il primo studente averroista.

“E allora risponderò io.” si intromise Dante alzando il dito per inserirsi nella disputa e portarsi al centro della stanza.

“E io controbatterò volentieri su una questione così alta.” rispose Guido Cavalcanti alzando anch'egli il dito e portandosi al centro della stanza.

I due studenti averroisti, visti entrare nella discussione due maestri di punta dell'accademia, si ritirano in silenzio salutando con un cenno del capo ai bordi della stanza come spettatori.

“Quindi quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” chiese Cavalcanti a Dante.

“Le stesse funzioni e qualità che hanno Dio, gli Dei e i suoi prodotti che sono luce e chiarezza.” rispose Dante.

“Sarebbe a dire?” chiede Cavalcanti.

“Che la verità è un prodotto degli Dei o di qualcuno che tende ad avvicinarsi verso di loro.” risponde Dante.

“Qualcuno chi?” chiese Cavalcanti.

“Chiunque decida di tendere verso il vero.”

“”Questo implicherebbe che la menzogna sia un prodotto di Satana e demoni o di qualcuno che tende verso di loro.” controbatte Cavalcanti

“Niente di più vero, ma queste due cose sono i limiti estremi a cui qualcuno tende o può arrivare. In mezzo a questi due limiti, esiste tutta una gradazione e combinazioni di verità e menzogne, che crea il mondo popolato di figure e atteggiamenti veritieri o menzogneri, nel quale viviamo.” risponde Dante.

“Avete dato la definizione di Inferno e Paradiso Ser Dante.” rispose Cavalcanti.

“E anche quella di purgatorio se la guardate bene. Un giorno lo spiegherò meglio da qualche parte.” rispose Dante.

“Vero. Tra Dio e Satana risiede una zona intermedia di menzogne e verità che si potrebbe chiamare benissimo purgatorio come dicono i nuovi teologi3.

Ma il paradiso e inferno dove si troverebbero se la terra per come la percepiamo noi, agisce e si comporta come un immenso purgatorio animato da noi stessi?” chiese Cavalcanti.

“Il paradiso o l'inferno sono i luoghi di destinazione finale che indicano la strada che prenderà ciascuno di noi a secondo che faccia bene o male.” rispose Dante.

“Intendete dire le nostre anime?”

“Intendo dire noi. Noi siamo la nostra anima.”

“E i nostri corpi di carne cosa sarebbero allora?” chiese curioso Cavalcanti.

“Corpi materiali animati da noi stessi, con i quali ci muoviamo e interagiamo nella materia.” rispose Dante.

“E per ora, tornando a Dio e alla verità?” chiese Cavalcanti.

“Per ora si da il caso che per tendere verso Dio occorre essere sinceri e per allontanarsi da lui occorre essere menzogneri, e questo ha molto a che fare con la verità.” risponde Dante.

“Ma come può un uomo che per definizione non è Dio, tendere o avvicinarsi a Dio, che non è per definizione uomo né materia alcuna, ma un'essenza creatrice, che si trova ovunque uno vada?” chiese Cavalcanti.

“Perché essendo l'uomo figlio di Dio, è anch'egli un piccolo Dio che deve crescere, e visto che Dio è verità, anche l'uomo se vuol essere tale a suo padre, deve seguire tale via, se vuol crescere e raggiungere suo padre naturalmente.” risponde Dante.

“State confermando che siamo fatti della stessa essenza di Dio.”

“Vero, la verità viaggia con luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e l'amabile visione di Beatrice.” rispose Dante.

“Beatrice la vostra donna luminosa?” Chiese cavalcanti.

“Beatrice colei che dà e concede beatitudine.” rispose Dante

Appena udite queste parole, interviene interrompendo il dialogo, uno degli studenti averroisti, molto incuriosito e interessato da quanto dante aveva appena detto.

“ISTANZA4, Ser Dante.” intervenne ad alta voce uno studente alzando la mano.

“Ditemi.” rispose Dante.

“Costei è un essere vero e reale o è solo una visione luminosa vostra ser Dante?” chiese lo studente.

“Questi sono fatti confidenziali miei, simili a molti di quelli che capitarono a diversi trovatori provenzali, che ho già spiegato e mostrato al qui presente Guido Cavalcanti e ad altri amici rimatori di quest'accademia, che hanno visto e vissuto fatti simili ai miei, e mi sono qui testimoni in questo momento.”

“Vorreste spiegarli meglio anche a noi Ser Dante?” chiese lo studente.

“No, non intendo spiegare a chi non ha vissuto o provate personalmente queste cose, perché occorrerebbe tentare di spiegare e definire a parole, cose che uno non ha mai visto o sperimentato, oltre a dover definire diversi altri termini come vita, Dio, Dei, spiriti, anime e altro, che richiederebbero discussioni e spiegazioni ben più lunghe di questa.” rispose Dante allo studente averroista fermando sul nascere una digressione troppo ampia che avrebbe portato molto lontano dalla disputa iniziale.

Interviene pure Guido Cavalcanti verso lo studente averroista.

“Vero. Io come molti altri poeti stilnovisti di quest'accademia, sono testimone di quando appena udito, e confermo che Ser Dante ha mostrato e spiegato nei dettagli a me e ad altri cosa sia e come sia fatta Beatrice, e vi posso dire che non è cosa che tutti possano comprendere senza vedere, e vedere senza apprendere in un'istante chi o cosa possa essere costei.“

Lo studente abbassò la mano e fece con un cenno del capo e un invito a continuare la discussione tra loro.

LA DISCUSSIONE SULLA VERITÀ RIPRENDE TRA DANTE E CAVALCANTI

“Avete detto poc'anzi, che la verità viaggia assieme a luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e amabile visione di Beatrice, ossia colei che da beatitudine. Giusto ser Dante?”

“Giusto.” confermò Dante

“Ora da quanto detto sopra sembra che stiate descrivendo le qualità della luce pura che hanno le pietre filosofali, e degli spiriti superiori che diventano visibili sotto la luce pura di quelle pietre5, come dicono filosofi e alchimisti, Ser Dante.”

“E cos'altro potrebbero essere queste cose, se non prodotti e opera di Dei decaduti e caduti sulla terra?” rispose Dante.

“Dei decaduti e caduti sulla terra per quale motivo?” chiese Cavalcanti.

“Per essersi allontanati dalla verità. Costoro hanno perso potere e sono finiti a vagare sulla terra, dove un dì sperano di tornare potenti come una volta.”

“Ma questo introduce il politeismo di tipo cataro dei perfetti provenzali6.”

“Questo non introduce nulla di nuovo, poiché il Dio unico è sempre quello. Caso mai spiega che gli Dei furono scacciati dal Dio unico, persero potere per essersi allontanati dalla verità e finirono sulla terra come seguaci di Lucifero, dove forse stanno tuttora. Gli Dei esistevano anche prima che il Dio rimanesse unico e solo.” rispose Dante.

“E perché allora costoro non sono più in cielo?”

“Forse perché si allontanarono dalla verità e si misero a tradire la loro missione che era creare ordine nell'universo come un astronomo può ben osservare nei movimenti regolari del cielo, e finirono per creare caos e disordine qui sulla terra, come chiunque veda una guerra tra uomini e il suo campo di battaglia.” rispose Dante.

“Tutto questo è interessante come discussione filosofica, ma dovreste provare a dirlo con l'inquisizione che sta distruggendo i perfetti catari per aver sostenuto cose simili.”

“Non so spiegarvi perché i perfetti catari vengano perseguiti, ma la nostra tradizione dice che i demoni furono seguaci di Lucifero che finirono puniti sulla terra, e se vi piace cercare la verità delle cose, anche l'inquisizione potrebbe essere un loro frutto finiti sulla terra.

Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore Dai loro frutti conoscerai il loro Dio. Ricordate questi versi del vangelo?”

“E allora in ultima analisi, che cos'è la verità? chiese Cavalcanti.

“È qualcosa per cui siamo stati fatti, e si trova ovunque tu vada?”

“Come Dio? Anche lui è ovunque tu vada?” chiese Cavalcanti.

“Sì, ma la verità non ti sta guardando, né seguendo. Sei tu.”

“Io?” rispose un po' spiazzato Cavalcanti

“Sì. Tu e chiunque altro sia vivo. Tu sei verità e scacci o attiri menzogne, quando ti allontani o avvicini ad esse.”

“E Dio?” chiese Cavalcanti.

“Anche lui è in te ed è fatto di luce e verità.” rispose Dante.

“Ma allora chi siamo noi?”

“Esseri spirituali decaduti e finiti nella materia.” continuò deciso Dante.

“E di che cosa sono fatti i nostri spiriti?” chiese curioso Cavalcanti.

“Siamo fatti come il cielo e le stelle, della stessa sostanza luminosa degli Dei.

E da qui in poi non mi chiedere altro, perché io non ti dirò più altro.” concluse il discorso e si ritirò in silenzio Dante.

1Guido Cavalcanti, poeta fiorentino del '200 amico di Dante. All'epoca Dante e Cavalcanti erano entrambi esponenti di spicco dello stilnovismo italiano.

2Substantia - Sostanza, letteralmente ciò che sta sotto a qualcosa.

3Il concetto di purgatorio, pochi anni prima di Dante, ancora non esisteva ed era stato appena introdotto da pochi anni come verità teologica.

4Istanza- Letteralmente In-Stantia - Stiamo in questa stanza o luogo.

5Le pietre filosofali erano pietre preziose tagliate a prisma, che scindevano la luce nei colori dell'arcobaleno, e molti alchimisti e filosofi osservando quel fenomeno nuovo per l'epoca, credevano che quelle pietre fossero state lasciate cadere dagli Dei sulla terra, e avessero proprietà superiori tutte ancora da scoprire. (N.d.A.)

6I catari erano fedeli di un'eresia proibita e perseguitata in Provenza nel periodo di Dante, che tramite la conoscenza spirituale, potevano diventare perfetti, e si facevano chiamare con tale nome coloro che raggiungevano tale stato..

Capita che i pensieri siano come fumo che si dissipa nell'aria: così denso appena esce dalla bocca ma disperso e invisibile poco dopo. Chiari e lucidi un solo istante nella mente ma subito dopo confusi e dimenticati. Spesso anche i sogni si comportano così. Sarà forse per colpa degli occhi, che assimilano e processano ogni sfumatura e sovrastano l'immaginazione, che tanti si fermano alla mera superficie senza approfondire?

Così pensava Antonio, cieco da un occhio, mentre fumava la prima sigaretta della mattinata.

Ho il cervello pieno zeppo di parole che però non vogliono uscire, non perché io sia timido o muto, ma perché appena cerco di incollarle insieme per creare un discorso logico si sciolgono e frammentano come se non sapessero più come tenersi mano nella mano. Mi basta tenere il mio occhio buono chiuso per sollevarmi da terra e, attraverso i suoni della città, volare lontano... il problema è che, tornato alla realtà, non posseggo i mezzi per tramutare quel volo in emozioni comprensibili. É allora inutile la mia sofferenza? Quindi si combatte in quel che si pensa credere, senza secondi fini o assurdità, con una luce fioca ma accesa. Si, una lucina accesa. Basta vivere nel completo buio, non ne posso più e spero che qualcuno mi capisca anche se la mia "luce accesa" è il mio occhio spento; è la mia personalissima possibilità di far danzare la mente con se stessa senza farla vedere a nessuno. Qual è il problema dunque? Il male, la sofferenza, il triste sanguinare di una realtà che non sempre mi appartiene? Ma cos'altro potrei fare se non sognare? Devo andare avanti dritto, non ci sono alternative. Solo quando è troppo tardi si cerca una soluzione per poi lamentarsi del dolore... ma è meglio così: conoscendo il dolore diventeremo più forti dicono.

Una mente disturbata o lucidissimi pensieri di un uomo di mondo? Sappiamo davvero distinguere la differenza tra giusto e sbagliato? Tra bene e male? Non è forse vero che ogni anima legge il proprio presente in modi diversi, con occhi diversi, con sguardi diversi, con parole diverse, con sentimenti ed emozioni diverse? "Ci si può considerare liberi finché la nostra libertà non lede quella altrui". Liberi dunque non lo saremo mai, perché ogni azione, che sia essa attiva o passiva, lede o modifica l'azione altrui; in pratica siamo destinati a rompere i coglioni alla gente con il solo respirare.

Spense la sigaretta e si diresse a prepararsi il secondo caffè, strascicando i piedi a fatica nel suo pigiama ancora tiepido, per trovare una scusa con se stesso e fumarsene un'altra. Aspettando lo scatarrare della moka si sedette e ancora una volta, chiudendo l'occhio buono, preferì allontanarsi dalla realtà.

Sarò il solo ad avere questi pensieri o ci sarà altra gente come me? Altri che si rifugiano attraverso una finzione da un mondo surreale? Magari altre persone mascherano meglio il loro sentirsi inadatti, io non ci riesco, dovrei incontrare qualcuno come me e chiedergli come si fa... ma così vivrei la sua finta realtà, così indosserei la sua pelle. Anche quello sarebbe inutile, come vincere a videogames con codici e trucchi: arrivi alla fine ma perdi il gusto della vittoria. Devo per forza arrivare da solo ad una soluzione e capire perché le giornate mi sfuggono di mano. Devo per forza trovare il modo di tramutare l'imbarazzo in esplosività e smettere di sottostare alle mie inadeguatezze. Devo per forza alzare la testa e capire il mio posto nel mondo delle ombre, per evitare di diventare cieco del tutto alla realtà. Devo, per forza. Dentro di me è tutto così chiaro ma là fuori... là fuori è diverso. Tutto cambia quando mostro alla mia pupilla i colori di una verità che non è apparente ma sin troppo solida.

Tornò alla realtà per pochi istanti: bevette il caffè bollente e subito andò sul terrazzo. Seduto sulla seggiolina da campeggio si accese l'ennesima Marlboro.

Però pensandoci bene la mia vita non fa troppo schifo, ho una donna, una casa, qualche lavoretto... e allora cos'è? La paura di un futuro sempre più incerto? Il terrore di trasformarmi in ciò che ho spesso ripudiato? Perché non riesco a dare un senso alla vita che inesorabilmente mi passa davanti come la pellicola di un vecchio film? I trucchi di magia che ho imparato da bambino non bastano più, è ormai inutile nascondersi dietro ad un fazzoletto magico, c'è bisogno di più energia, più potenza, più coraggio. Già, coraggio, il coraggio di affrontarmi tutte le mattine e combattere contro il mio occhio cieco, che altro non fa che sognare e distillare dubbi dalle immagini che l'occhio buono gli manda. Forse il problema è solo quello, la visione che ho del mondo, sempre a metà. Sento le mezze verità, le mezze parole, le mezze bugie, fumo mezza sigaretta, bevo mezza bottiglia, faccio mezzo pieno alla macchina, sto in mezzo alla strada, mi lavo a metà, vivo a metà. Potrei magari trasformarla in qualcosa di positivo... potrei trovare in questa esistenza a metà la pienezza dell'assimilare solo la parte interessante ed elaborare, risolvere ed espellere l'altra parte. Prendere i mezzi sorrisi come gesto d'affetto e non come sorriso di circostanza, prendere una pacca sulla spalla come un mezzo incoraggiamento e non come un "Povero sfigato, ci hai provato"; potrei prendere un "Ciao, come stai?" come un genuino interesse verso di me e non un semplice saluto.

Sarà difficile vedere la parte bella delle cose, mi sono allenato così tanto ad ignorarla che inizialmente sarà quasi impossibile anche solo da scorgere. Passato qualche tempo però può darsi che io riesca a sentire in corpo solo quella, così da non dovermi rifugiare nella rabbia del buio ma finalmente vedere la tanto pubblicizzata bellezza del mondo. É deciso.

Aprì l'occhio e fece appena in tempo ad abituarsi alla luce e guardare il sole che un merlo, per chissà quale assurdo destino, gli si schiantò addosso centrando con il suo becco arancione la nera pupilla buona, rendendolo completamente cieco.

E allora vaffanculo.

Dalla finestra del mio studio intravedo, oltre il giardino, il bosco di querce che si estende dietro la casa, fino alla zona industriale, e nasconde alla vista gli antiestetici capannoni. Quando io e Irene abbiamo comprato la villetta, prima di sposarci, la vicinanza di quelle costruzioni, anonime e un po’ squallide, è stato un problema per lei. Ma io mi sono innamorato subito di questo posto: in origine era un vecchio casale, ristrutturato diversi anni fa, quando i campi hanno iniziato a essere cancellati dall’espansione edilizia e dalle lottizzazioni. Prima di venire ad abitarci abbiamo fatto un ulteriore restauro, adattandola ai nostri gusti e alle nostre esigenze: nel tempo tra noi e questi muri si è stabilita una sorta di simbiosi, uno scambio di energie positive a cui adesso è difficile sottrarsi. Qui si ha la sensazione di essere in campagna, isolati dal resto del mondo, seppure non lontani dal centro: per arrivarci basta percorrere la nostra piccola strada a senso unico fino all’incrocio con la via principale del quartiere, girare a destra e dopo circa una cinquantina metri immettersi nella strada provinciale, che cinge la città come un anello. Quando non si è pressati dal tempo è piacevole anche fare il tragitto a piedi, o in bicicletta. Il giardino circonda la casa: un muretto, sovrastato da una rete, e un cancello ne separano la parte anteriore dalla strada; il retro, che ne è anche la parte più estesa, si allarga per parecchi metri quadrati, quasi trecento e, se non fosse delimitato dalla recinzione, si confonderebbe con uno dei pochi prati rimasti in questa prima periferia, non ancora attaccato dalla cementificazione scriteriata degli ultimi anni. Appena siamo arrivati qua Irene si è anche impegnata nel trasformare un piccolo rettangolo del terreno in un orto minimalista, più per il gusto di mettersi alla prova che per altro. La sua soddisfazione nel portare in tavola i prodotti di quella striscia di terra, che si era ritagliata tra i cespugli di bosso e di forsizia, è sempre stata motivo d’ilarità: pomodori un po’ rachitici e insalata spesso già spigata, ma fonte di grande orgoglio per lei, nata e cresciuta in una grande città del nord, dove l’unico verde che vedeva era quello del parco dove andava a correre in primavera e in estate.

Passo molto tempo in casa, soprattutto in questa stanza, da quando l’incidente mi ha costretto a limitare gli impegni. Del resto, è sempre stato l’ambiente che ho amato di più. Io e Irene abbiamo deciso di farne il nostro studio ancora prima di trasferirci qui in modo definitivo, forse già dalla prima volta che abbiamo visto la casa: molto grande, con i soffitti alti, il parquet di un bel rovere dai toni caldi, di fronte alle due finestre un camino imponente, con la cornice in legno intagliato, del tipo preferito da mia moglie, che è stata sempre condizionata dalla sua passione per le atmosfere inglesi nella scelta dell’arredamento. Ha sempre detto: «Per me essere qui è come essere dentro un romanzo di Jane Austen.». È rimasta quasi delusa quando, durante il nostro primo viaggio in Inghilterra insieme, abbiamo visitato delle dimore storiche e notato quanto fossero bassi i soffitti di alcune vecchie abitazioni. Le è piaciuto da impazzire arredare la nostra tana, e qui tutto parla di lei. Sullo schienale della poltrona, accanto al focolare, è posato il suo scialle, quello tutto colorato, tessuto dalla sua amica Paola che, tra un impegno e l’altro della professione di avvocato, si ritaglia degli intervalli per eseguire lavori al telaio, che poi regala ad amiche e parenti. Il miscuglio di sfumature è del tutto bizzarro, fuori da ogni logica: il giallo alternato al fucsia, e poi turchese, arancione, verde mela, rosso. Sembra l’opera di un messicano un po’ fuori di testa: sul nero della pelle della poltrona è come un’esplosione di allegria in una giornata tetra, fuochi d’artificio che irrompono nel buio della notte.

Il bagliore generoso e avvolgente della fiamma nel camino mi fa pensare ai pomeriggi passati qua dentro: lei immersa nella lettura dei suoi adorati libri e io che lavoro a qualche progetto al tecnigrafo: ho sempre avuto l’abitudine di portarmi del lavoro a casa. Quando fuori c’è la neve, come adesso, per esempio. Ma non solo: qui mi concentro di più, i miei progetti migliori sono usciti da queste quattro pareti. Non abbiamo mai messo le tende alle finestre, tanto lì dietro, oltre il recinto, ci sono solo il prato e il bosco. Il paesaggio, a cui le finestre fanno da cornice, oggi è davvero incantevole: sembra una cartolina di Natale, anche se il Natale, fin troppo piovoso quest’anno, è ormai un lontano ricordo. Si cominciava già a pensare alla primavera quando c’è stata questa recrudescenza dell’inverno. Era da tanto tempo che non nevicava così e io avevo quasi dimenticato quanto fosse piacevole starsene al caldo della legna che brucia, circondati dal silenzio protettivo del soffice strato candido teso a ricoprire tutto e quasi messo lì, come una coperta sotto cui rannicchiarsi, dalla sollecitudine premurosa di un vecchio amico. Il rumore della strada arriva attutito fin qui: il fruscio soffocato delle ruote che scivolano sulla neve e la cacofonia metallica delle catene. Ma il silenzio è più forte, avvolgente, rassicurante. Suggestivo.

«Luca, ti va un po’ di musica?», la domanda immancabile di Irene in momenti come questo. Le è sempre piaciuto ascoltare brani di musica in casa, ancora di più se insieme a me. Le note di melodie barocche, le sue preferite, sono risuonate talmente spesso qui dentro che, a volte, sembrano prendere vita da sole e scaturire dalle pareti che le hanno assorbite nel tempo.

La sera in cui siamo andati a cena da Guido e Miriam, Irene è uscita di casa prima di me e, quando l’ho raggiunta, era già al volante della sua macchina. Stava ascoltando un concerto di Tartini, il cd era di sicuro già nel lettore ed era partito non appena lei aveva acceso il motore.

«La tua è in garage, inutile tirarla fuori adesso.», mi ha detto. «Dai, salta su che siamo già in ritardo! Sei sempre il solito, tu!».

Era euforica. O nervosa: in fondo avrebbe preferito starsene nella nostra bella casa, “la casa di Nora felice”, è così che l’ha chiamata. Aveva anche proposto, con uno di quei guizzi di incantevole follia per cui m’ero innamorato di lei, di mettere una targhetta con quel nome accanto al cancello. Ero riuscito a dissuaderla, ma era stata dura. Fosse stato per lei, Ibsen avrebbe dovuto scegliere un’altra conclusione per il suo testo, perché l’intenzione di lasciare me e la nostra dimora amatissima non l’avrebbe mai neanche sfiorata, è quello che ha sempre detto ridendo, ma con gli occhi seri.

Quella sera pioveva, neanche poi tanto, una pioggia che durava da quasi una settimana ormai, tipica del mese di novembre in questa zona. Lei parlava in continuazione, aveva tante cose da raccontarmi perché il giorno prima era rientrata da una visita alla sua famiglia: aveva rivisto anche delle vecchie compagne di scuola di cui io mi ricordavo appena, per averle incontrate al nostro matrimonio. È stato mentre mi raccontava della separazione recente della sua ex compagna di banco al liceo, che era stata anche testimone al nostro matrimonio, che s’è interrotta di colpo e poi, dopo un breve silenzio, ha annunciato «Devo dirti una cosa.», con un tono così compunto, diverso da quello leggero avuto fino a quel momento, che per un attimo nella mia mente si sono rincorse le ipotesi peggiori: malattie, disgrazie in agguato, rivelazioni di segreti nascosti per anni e, certo, anche la presenza di un’altra persona nella sua vita. Dopo un tempo brevissimo, ma che a me è sembrato più lungo dell’eternità, ha aggiunto, quasi in un soffio: «Aspettiamo un bambino.», un’altra pausa, con gli occhi sempre puntati sulla strada, mentre io fissavo lei e non riuscivo a dire nulla per lo stupore che, in una carambola di emozioni, erompeva in un’implosione di gioia incontenibile, che facevo uno sforzo enorme a controllare, visto che eravamo in auto, e volevo evitare un incidente. «O una bambina. Lo sapremo tra qualche mese.». Mentre era in visita dai suoi genitori, aveva avuto un presentimento e aveva fatto il test di gravidanza, che era risultato positivo. Quindi si era fatta anche visitare dal ginecologo da cui andava quando abitava ancora lì, e ne aveva avuto la conferma. I nostri piani erano diversi, avevamo deciso di aspettare ancora un po’ prima di avere figli, ma in quel momento la sensazione che il caso, o il destino, avessero deciso per noi mi è sembrato un gran colpo di genio, un dono inaspettato e proprio per quello straordinario. Lei continuava a guidare, potevo solo farle una carezza sui capelli, mentre i nostri sorrisi felici si riflettevano sul parabrezza che i movimenti regolari del tergicristallo mantenevano terso, cancellando le poche gocce della pioggia lieve ma persistente.

A casa di Guido e Miriam il racconto del viaggio appena fatto, con tutti i particolari legati anche al suo passato, è continuato e, al momento del dolce, prima che sollevassimo i bicchieri per brindare alla nostra amicizia, Irene ha assunto di colpo un’espressione enigmatica e, lanciandomi uno sguardo complice, si è rivolta ai nostri amici e, «Aspettate, c’è una cosa che devo dirvi.», ha esordito. «Siete i nostri amici più cari, ed è giusto che condividiate con noi la bella novità.» «Sei incinta!», ha esclamato Miriam senza darle il tempo di finire. Non c’è stato bisogno di rispondere, le nostre facce e gli occhi dicevano già tutto. E poi è stato un tourbillon di baci, abbracci, congratulazioni, auguri, brindisi.

Alla fine della serata, al momento di tornare a casa, e nonostante le mie proteste, Irene si è rimessa alla guida della macchina, convinta che io avessi esagerato con il prosecco per festeggiare la vita annunciata. Non aveva mai smesso di piovere, le gocce sottili calavano sulla città come un velo, con l’insistenza uggiosa a cui si è abituati da queste parti, gocce minute e implacabili come il pulviscolo che si accumula nostro malgrado sulle cose. Ma noi non ne eravamo affatto infastiditi, niente avrebbe potuto turbare il nostro stato di grazia. Quando Irene aveva acceso il motore, era ripartita la musica di Tartini, un concerto per violino che lei ascoltava spesso, era tra i suoi preferiti. La musica riempiva l’abitacolo e noi ci godevamo quel momento in silenzio, con i fari delle poche auto, che andavano nell’altra direzione, a illuminare noi e la strada, più buia del solito quella sera. Poi i ricordi si trasformano in una nebbia fitta, squarciata a tratti da immagini indistinte, come capita a volte nei brutti sogni. C’è la moto, che ha invaso all’improvviso la nostra corsia all’imbocco della curva, e l’assoluta impossibilità di evitarla. Non ricordo se abbiamo gridato. Di quella manciata di secondi è rimasto solo il bagliore improvviso e accecante di un fanale che puntava sparato contro la nostra auto. Dopo mi hanno detto che il motociclista ha perso la vita nell’impatto, io e Irene siamo stati portati in ospedale in condizioni gravissime, in seguito alla telefonata di un altro automobilista che aveva assistito all’incidente. Irene è morta il giorno dopo. Io sono stato tenuto in coma farmacologico per diverso tempo e quando ne sono uscito mi hanno comunicato che avevo perso l’uso delle gambe; e mia moglie.

A Irene sarebbe piaciuta davvero tanto tutta questa neve: dalla finestra, avvolta nel suo scialle strampalato e festoso, si sarebbe riempiti gli occhi di tutta la luce azzurrina riflessa dal cielo sereno su questo drappo intessuto di cristalli purissimi e impalpabili, appena sfiorato dal sole. E anch’io sto bene qui, dietro i vetri; con lei.

Maria svignarsela, bisogna svignarsela ti dico! Adesso! Subito! Prima che questa terra ci risucchi e ci seppellisca vive, che questa angoscia ci tolga l’ultimo soffio di essenza vitale che ci è rimasta in corpo! Vuoi che diventiamo degli zombies ambulanti come la maggior parte della gente che ci circonda? Che vive per inerzia, solo perché non ha avuto il coraggio di scappare, di provare a cambiare e migliorare la propria vita? Io no! Ascoltami per favore!”.

Carmela, primogenita di 4 figlie, parlava con sua sorella Maria, la più piccola di tutte, tra di loro c’era un abisso, non solo dovuto ai dieci anni che le separavano, quanto piuttosto alle loro storie personali: la più grande aveva deciso presto di sposarsi, quando ancora frequentava l’università e adesso era reduce dalla fine del suo matrimonio, con una figlia a carico e disoccupata; Maria invece era stata una bimba viziata, con nessuna voglia di studiare né di impegnarsi nella vita, ma ora si trovava ai ferri corti, i genitori le avevano chiaramente detto che non l’avrebbero più mantenuta e se non avesse trovato un lavoro l’avrebbero buttata fuori di casa, ma le minacce su di lei sembravano non sortire alcun effetto, tutto le scivolava addosso, imperturbabile dalla nascita.

Carmela, invece, era irritata, nervosa, ansiosa ed arrabbiata come sempre; aveva quel maledetto carattere spigoloso, duro ed inavvicinabile come la terra dove era nata, l’entroterra Siciliano, fatto di rocce e terreni scoscesi, invivibile, come se volesse restare disabitato per sempre.

I suoi abitanti lo sapevano bene che nascendo lì erano destinati alla sofferenza, alla lotta continua e costante, perciò venivano al mondo con il carattere già plasmato, forgiato su misura per poter affrontare quei luoghi.

Chi poteva andava via, ormai le campagne erano abbandonate a se stesse, completamente disabitate; il turismo a poco a poco anziché svilupparsi andava scomparendo, merito del carattere chiuso e poco affabile degli abitanti e delle strade che ormai erano diventate inagibili ed impercorribili.

Lo Stato sembrava essersi dimenticato che la Sicilia fosse una regione che gli apparteneva e non un’isola indipendente, inoltre il fatto che fosse a statuto speciale non l’aiutava, perché anche quando il governo avesse voluto intervenire, non avrebbe potuto, la mafia non glielo avrebbe permesso, la Sicilia era “cosa sua, cosa nostra” e ci si doveva adeguare al potere vigente, oppure soccombere, nessun’altra alternativa.

Carmela in quel periodo era più irrequieta che mai, si sentiva come l’Etna che ogni giorno riusciva a vedere da casa sua, pronta a scoppiare in ogni momento e a soffocare chiunque e ogni cosa con la lava e la cenere nera che imbruttiva tutto ed anche quando non eruttava, quando sembrava tranquilla o essersi addormentata, era comunque arrabbiata, continuava ininterrottamente a uscire fumo dalla sua cima.

Aveva un bisogno impellente e vitale: lavorare, lo doveva a se stessa e alla sua piccola Stella, di appena 5 anni.

Ormai però non era più necessità, per lei era diventata un’ossessione, che la torturava giorno e notte.

Chi è costretto a fare le mattinate o le nottate per lavoro ambisce sempre al riposo e al sonno, lo sapeva bene anche lei, che aveva lavorato per qualche anno in un bar; invece adesso sapeva anche cosa voleva dire avere tutto il tempo a disposizione e non riuscire a riposare né a dormire, l’angoscia per il futuro era troppo assillante, da toglierle persino il respiro e le forze.

Aveva lasciato suo marito, dopo aver vissuto per tanti anni nella completa solitudine e nell’abbandono totale e stava facendo tutto il possibile per riprendere la vita in mano, ma le sembrava che il mondo le remasse contro.

Per lei trovare un lavoro non era necessario per poter sopravvivere, era un modo per affermarsi, per dimostrare finalmente quanto valeva; perciò seguendo questa logica, migliore sarebbe stato il lavoro trovato, più la sua persona avrebbe acquisito valore.

Lei che aveva sempre lottato contro il consumismo, ormai era stata travolta completamente dalla sua logica: più guadagni, più vali.

Anche se poi non avrebbe speso un centesimo, no, lei avrebbe accumulato, accumulato, accumulato, come le formiche, avida solo per paura; perché da quando si era trovata a dover fare da mamma e da papà per la sua Stellina, sapeva bene che era l’unica persona al mondo che le poteva garantire un futuro sereno, dignitoso e senza troppi problemi, almeno non quelli economici.

Aveva ricominciato a studiare, lei che aveva dovuto abbandonare quella che era la sua passione, lo studio, perché le era venuta meno la speranza e la paura l’aveva sopraffatta, impossessandosi della sua mente, quando non poteva più permettersi di pagare le tasse universitarie né il biglietto dell’autobus per arrivare in facoltà e sapendo che la piaga della disoccupazione si stava spargendo a macchia d’olio in quel territorio che da sempre era abituato a conviverci.

Era convinta che questa volta le soddisfazioni sarebbero arrivate, invece dopo aver inviato migliaia di curricula, aveva ricevuto risposte solo per lavori a percentuale, part time, a progetto, collaborazioni varie in ogni angolo d’Italia.

Aveva 30 anni compiuti e si sentiva terribilmente vecchia, non per l’aspetto, di quello non gliene era mai importato un fico secco, ma troppo grande per poter trovare un lavoro decente che l’avrebbe soddisfatta, che avrebbe esaudito la sua voglia di ascesa personale e professionale.

Ormai non lavorava più da due anni ed il suo conto era più in rosso dell’inferno; tutti richiedevano esperienza, che lei non aveva e una conoscenza ottima delle lingue, cosa che per chi ha frequentato le scuole italiane senza aver mai varcato il confine è un’utopia.

Così pensò ciò che fino ad allora non le era mai balenato nella mente, sfruttare l’unica esperienza che aveva, quella al bar e finalmente trovare il coraggio di attraversare le Alpi, andare in qualche posto in Europa, dove forse sarebbe stato più facile vivere.

La differenza con l’Italia l’aveva avvertita immediatamente, perché le avevano risposto tutti coloro ai quali aveva inviato il curriculum e qualcuno le aveva anche proposto un lavoro immediato ed a tempo indeterminato.

Qualsiasi essere sano di mente avrebbe fatto i salti di gioia, ma non lei, non Carmela, che non era mai riuscita a gioire per nessuna cosa. Aveva un “dono” naturale, distruggere ogni momento piacevole, lei riusciva sempre a trovare qualcosa di negativo, i difetti nella gente, gli errori anche in un’opera d’arte!

Così quando un datore di lavoro le aveva detto: “per me può venire domani con il primo aereo!”, per andare a lavorare in una gelateria sul Danubio, lei era entrata nel panico.

Adesso il terrore non era più la mancanza di lavoro e di denaro, ma ciò che le metteva paura era lasciare la sua Stellina.

Quando aveva deciso di separarsi dal marito, il suo unico pensiero era andato alla serenità di sua figlia e le era parso di essere riuscita a non turbare la tranquillità di Stella, nonostante il padre si fosse dissolto nel nulla, scomparendo quasi totalmente dalla sua vita.

Ma adesso che era riuscita a fare sia da padre che madre, a colmare quel vuoto nella vita della figlia, dove avrebbe trovato il coraggio di abbandonarla?

Sapeva bene che qualsiasi sacrificio avesse fatto, era necessario per entrambe, ma non credeva che Stella riuscisse a capirlo o forse era solo una giustificazione perché non trovava il coraggio per fare un altro, l’ennesimo, salto nel vuoto, barcollando ancora un volta nel buio.

Ad un tratto cominciò a pensare che la figlia non avesse bisogno del denaro, ma aveva necessità della sua presenza, del suo amore, del suo sostegno, anche se in questo periodo sembrava non esserne più capace, era come se i troppi pensieri negativi non le dessero modo di essere la mamma buona, amorevole e completamente dedita alla figlia, come invece era sempre stata.

Ad un tratto non le importava niente del consumismo, dei soldi, né del dover dimostrare alla gente quanto valeva; adesso capiva che il senso della sua vita era dare pace e amore a quella creatura che aveva deciso di mettere al mondo.

Anche un trasferimento della figlia insieme a lei le era sembrato impensabile, stravolgerle la vita proprio non le andava giù, sapeva che le avrebbe fatto troppo male, le avrebbe scombussolato ancora una volta tutti gli equilibri, avrebbe perso tutti gli amichetti e non conoscendo nessuna lingua straniera sarebbe stato davvero difficile trovarne altri.

D’altronde mamma e figlia, dopo la separazione, erano andate a vivere nella casa natale di Carmela, dove Stella godeva dell’amore dei nonni e le zie, quindi una sua partenza e assenza, sarebbe stata ammortizzata dall’affetto della famiglia.

Un secondo pensava che avrebbe dovuto accettare e partire subito, il secondo dopo che non doveva lasciare la sua terra, che tutto si sarebbe sistemato.

Le sembrava che la testa stesse per scoppiarle e non riusciva più a ragionare in maniera obiettiva.

Forse ciò che le faceva più paura era la solitudine che avrebbe dovuto affrontare, lasciarsi tutto alle spalle e partire, senza nessun appoggio, nemmeno morale, lei che era abituata al caos, alla confusione, alle urla, alle risate di una famiglia numerosa e chiassosa, avrebbe dovuto prepararsi al silenzio, alla noia e ciò la terrificava.

Così pensò di portarsi un pezzo di casa, ecco perché stava cercando di convincere a tutti i costi Maria, l’unica che poteva spostarsi, non aveva legami, niente la tratteneva lì, ma lei sembrava proprio non volerne sentire, continuava a giocherellare con il cellulare e Carmela avvertiva che non la stava più ascoltando già da un bel po’.

Ok, ok, mi hai convinta sorellona! Adesso però mi aiuti a scegliere il vestito da indossare stasera? Con i miei amici andiamo in un disco pub, perché non vieni pure tu? Così ti svaghi e la smetti di pensare sempre alle stesse cose, stai diventando più pallosa che mai, mi sembri la nonna!”.

Carmela capì allora che parlare con Maria era del tutto inutile, non le rimaneva che aspettare che i genitori l’avessero buttata fuori di casa, magari a quel punto avrebbe ascoltato!

Forse hanno preso l’ultimo caffè assieme. Si sono salutati e poi si sono infilati nella folla di sconosciuti che a volte circonda gli addii. E ora ciascuno se ne va per la sua strada, con l’inquietudine di chi non sa stare da solo, ma con la consapevolezza che devono anche smetterla di perdersi l’uno per l’altra.

Luca: Segue la scia della gente nel dedalo di strade che si incrociano oblique. Con lo sguardo fruga nei visi delle persone per andare al di là delle apparenze, alla ricerca di un segno che lo faccia risalire dal baratro in cui gli pare di essere precipitato. Ma i volti che gli scorrono accanto sono impenetrabili, macchie dai contorni sfumati. Ora sa che le occasioni, così come si creano, si perdono, e questa certezza gli si rivela con dolorosa chiarezza. A volte si rimane in bilico, nella consapevolezza di essere diverso dall’altro, ma anche uguale. Lui ha sempre vissuto così, attratto eppure spaventato dal contatto con chi gli stava attorno. E a volte perfino da se stesso. Il fatto è che si è diversi pure da come si era un attimo prima, si cambia senza neanche rendersene conto. Se solo ci fossero specchi per l’anima per seguirne in tempo reale i mutamenti.

Gloria: Si cambia, eccome. Il cambiamento inesorabile di gente che finisce per sfiorarsi senza vedersi, senza capirsi, senza neppure provare a riconoscersi. Non più. Gloria è rimasta ferma per un istante sul bordo del marciapiede, a osservarlo mentre si allontanava, poi ha attraversato la strada per entrare nei grandi magazzini, confondendosi nella massa dei clienti che a quest'ora si muovono curiosi e indolenti tra gli stand. Assimilarsi alla folla, in fondo, è quello che vuole davvero in questo momento, le costerebbe troppa fatica e troppo impegno distinguersi dalle tante anime perse che si aggirano in questo luogo di caotiche ed effimere sicurezze, e rischiare di riconoscere tra le altre la sua.

Luca: Si toglie giacca e cravatta, e avverte la stessa sensazione che proverebbe se gli avessero tolto una camicia di forza. È quasi come tornare a respirare dopo essere stato in apnea. Con la coda dell’occhio ha visto Gloria infilarsi nella porta girevole del negozio. La segue. D’istinto cerca di mimetizzarsi nella moltitudine che lo circonda, per poterla pedinare da lontano in quella babele di gente. Ma troppe cose lo distraggono: oggetti, luci, signore, ragazzine, commesse, famiglie. Per un po' riesce a distinguerla, anche se è distante, ma non vuole essere notato. Si ferma a uno stand al primo piano e acquista un maglione rosso; si fa togliere l’etichetta, paga alla svelta e se lo butta sulle spalle, senza indossarlo. Infila la giacca e la cravatta nella busta che la ragazza alla cassa gli dà assieme allo scontrino. La cerca di nuovo nella confusione, ma non la vede più. Chissà se è ancora lì, si chiede.

«Sia cortese, me dia una mano, non riesco a trovare la misura delle canottiere de cotone per mio marito». È una donna florida e piacente, che gli si para davanti con un mezzo sorriso.

Gloria: Le scale mobili, quasi una metafora della vita - gente che sale, gente che scende, persone che si guardano di sfuggita senza vedersi davvero. Poi c'è sempre chi ha più fretta degli altri e ti spinge da una parte per farsi largo. Però... Riflette su queste inezie quando, dall’alto della scala mobile che scende dal reparto dell’abbigliamento femminile, vede una strana coppia in quello della biancheria maschile, al piano inferiore. La donna, grassoccia e dall'aria gioviale, sta misurando una canottiera di quelle che non usa quasi più nessuno, bianca, senza maniche e scollata, sul busto di un uomo dall'aria familiare. Non può essere lui: lo ha visto dirigersi verso il labirinto di viuzze, e poi era vestito in modo diverso, portava quella che è diventata la sua divisa da lavoro: completo grigio scuro, camicia azzurra e cravatta, non sempre dello stesso colore, ma rigorosamente regimental. Quel maglione non lo aveva mai visto. Rosso, poi. Risalta nel grigiore dell’ambiente, dall’arredo impersonale e minimalista, ed è una nota quasi eccentrica, fuori luogo. No, Luca porta sempre colori che lo aiutino a mimetizzarsi, non può essere lui.  Forse è soltanto un cliente che gli somiglia molto. Forse.

Luca: Dopo l’acquisto estemporaneo torna a confondersi fra la folla a cui prova a conformarsi, cercando di fare le stesse cose che fanno gli altri, a guardare cose di cui a lui è sempre interessato meno di niente. Ma è per comprare che si va ai grandi magazzini, e allora lui compra e guarda comprare. E continua a cercare con gli occhi quella che fino a qualche minuto prima era ancora la sua donna. Non si accorge che la scala mobile è arrivata al piano e inciampa, finendo lungo disteso per terra, senza scampo. Crolla sul gomito già malandato a causa di una brutta caduta da cavallo di qualche anno prima, non riesce a trattenere un grido di dolore.

Gloria: Davanti a lei ci sono un ragazzo e una ragazza in tuta e scarpe da ginnastica: hanno l’aria stanca e distesa che si ha dopo aver svolto un’attività fisica. Devono essere andati a correre nel parco, non lontano dal centro. Anche lei una volta si allenava con regolarità: ai tempi dell'università partecipava anche a qualche gara. Poi era arrivato lui e, a poco a poco, l'aveva distolta da tutti i suoi interessi. Quasi tutti. Le era rimasto il cinema: spesso nelle ore pomeridiane, con la scusa della spesa, se ne andava via di casa da sola e passava il tempo dentro una sala a vedersi l'ultimo film uscito. Quando aveva capito che starsene per conto suo, in un cinema spesso vuoto, di pomeriggio, era un modo per evadere dalla vita con lui, aveva iniziato a maturare l'idea di lasciarlo. Questa ossessione si era insinuata con prepotenza nella sua testa, come un tarlo ostinato e incontrollabile, finché aveva penetrato ogni fibra del suo cervello, e allontanarsi da quella casa e da quell'uomo era diventato un assillo, un chiodo fisso.

«Signora mia, ma che è successo? Guardi ‘npo' là quanta gente! E che sarà mai?», è la signora grassoccia che ha visto poco prima con l’uomo del maglione.

«Non saprei, ho sentito che chiamavano l'ambulanza, forse qualcuno si è sentito male.»

«Eh, nun se pò mai stà tranquilli, e che te pare?!», e nel dirlo scuote la testa piena di ricci rossi di henné.

Intanto gli addetti alla vigilanza stanno aiutando qualcuno ad alzarsi. È Luca.

«Ah signò, ma io quello lo conosco! 'n signore tanto ammodo, je parlavo proprio n’attimo fa!»

«Ah sì? Chissà cosa è stato…», pronuncia queste parole con tono neutro, attenta a non tradire alcuna emozione.

«Ma che ne so!? Ma guarda che je doveva capità, porello. Però io vado a véde. Magari je serve ‘na mano…»

Lei rimane in disparte, ha cura di non farsi notare da lui. Tanto se la caverà. E intravede che barcolla, mentre i vigilantes chiedono spiegazioni; un fazzoletto spuntato dalla tasca di una commessa gli tampona il sangue sulla fronte: deve essersi ferito cadendo.

Poi lo perde di vista, è nascosto da un capannello di gente. L’istinto sarebbe quello di andare lì, di non lasciarlo da solo, di soccorrerlo, ma si trattiene. «Ce la farà, deve farcela. Lasciarmi coinvolgere proprio adesso no, non adesso …». Lo sa, poi si darà della codarda, magari anche della cinica, ma volterà pagina, dimenticherà anche questo sapore di irrealtà. Sia quello che sia, rimane al coperto.

Torna la signora dai capelli rossi, emozionata, affannata, col seno debordante che sembra scoppiare dentro la giacca attillata.

«Porello! Nun ce se crede! La faccia piena de sangue. Ma che je sarà capitato?! Se sarà sentito male!».

Lo accompagnano all’ambulanza, che nel frattempo è arrivata. Lei lo scorge di spalle, il compagno con cui ha condiviso amore, sogni, speranze, tempo, lavoro, liti, sacrifici, noia; un uomo forte e debole, normale, uno come tanti, una brava persona, mediocre, a volte speciale, comune, egoista, sì, proprio uno come tanti, consumato dalla vita. Come lei, in fondo. Ma un uomo con cui le fa paura invecchiare.

Lascia che tutto le scorra davanti, il peggio è passato, lui ormai è sull’ambulanza. Resta qualcuno della direzione. «Tranquilli, non è successo niente. Un piccolo incidente, ora è tutto a posto.».

Lei si avvia verso l’uscita. Prova sollievo nel ritrovarsi all’aperto, tra la solita gente che affolla le vie, ordinaria, consueta. Cerca di cancellare dalla pellicola della mente le immagini che vi si sono appena impresse, la scena di qualche attimo prima, per tornare a concentrarsi su di sé. Attraversa la strada e si ferma di fronte al bar del loro ultimo incontro. Pesca il cellulare nella borsa e cerca il numero in rubrica: «Radiotaxi? Sono al bar del Corso, vicino ai grandi magazzini.».

Non entra di nuovo nel locale, si limita a guardarlo da fuori. Nessuna nostalgia. Solo poco più di mezz’ora prima erano stati lì insieme, lui con la sua aria di sufficienza da professionista affermato, e lei con il tailleur d’ordinanza e la solita grande borsa sulla spalla, piena di tutti gli oggetti che sono un po’ il riassunto della sua vita; lei con l’aria di una donna senza più rinunce, a vivere quello che doveva essere un saluto o un addio, pieno di cose non dette e tenute in fondo al cuore, di spiegazioni non date, e rese tuttavia palesi dalla familiarità. Anche se resta sempre qualcosa da spiegare, si arriva comunque, in modo ineludibile, al punto in cui non serve più parlare, perché ogni parola diventa fumosa, una falsa pista, una frettolosa menzogna.

Sembra passato un tempo infinito. Una parte del suo percorso, diventato ormai troppo arduo e tortuoso, è alle spalle. Davanti s’intravede un sentiero nuovo, di sicuro incerto, nebuloso, ma è lì che aspetta di essere battuto.

Il taxi è arrivato, è in attesa vicino al marciapiede: lei vi sale senza guardarsi attorno. I suoi bagagli sono già al deposito.

Allo sguardo interrogativo del tassista, con voce ferma, senza ombra di esitazione, comunica decisa: «Alla stazione.».

Pagina 6 di 7